Corriere della Sera, 24 luglio 2015
«Mi sono sempre sentito in debito con i bimbi di Taranto, ho pubblicato un libro con i loro disegni e le loro lettere. E ora invece sono accusato di aver chinato la testa davanti al potente che li avvelenava». La difesa di Vendola. L’ex governatore si lamenta dell’accanimento mediatico sulla sua figura: «I Riva sembrano delle comparse e il processo incentrato su di me. Un’offesa alla verità» e poi fa sapere che la sua ora non è ancora arrivata: «Affronterò il dibattimento, continuando a sognare una Italia in cui la giustizia non sia mai l’equivalente di un processo di piazza. Sono ferito, ma vivo»
«Lo vede? Anche adesso, su Sky. Io, e solo io, rinviato a giudizio per l’Ilva».
Nichi Vendola, in effetti ci sarebbe anche lei...
«Ma si tratta di un incredibile capovolgimento della realtà. Nel racconto mediatico i Riva sembrano delle comparse e il processo incentrato su di me. Un’offesa alla verità».
Non è tardi per scoprire il circo mediatico-giudiziario?
«Di queste vicende si sa molto dell’inizio e nulla della fine».
Questa ce la spiega?
«Io sono finito in prima pagina perché forse ero nei guai, perché forse ero indagato, perché ero indagato davvero e infine rinviato a giudizio».
Dovevamo far finta di niente?
«Negli ultimi anni, per una par condicio che non mi sfugge, per ogni paginata su Cuffaro, Formigoni, Verdini, ce n’era una sulle mie presunte malefatte».
Dove vuole arrivare?
«Quanti sanno che le motivazioni della mia assoluzione nell’inchiesta sulla sanità con la quale i media ci hanno marciato per anni affermano che le accuse nei miei confronti erano così forzate da essere “ai limiti del principio di legalità”? E metta pure le virgolette perché è una citazione dagli atti».
Ricorda quando anche lei esaltava «l’opera salvifica», questa è una sua citazione, della magistratura?
«Mi sono sempre battuto per la legalità, ma non credo di poter essere collocato nella rubrica del giustizialismo. E rivendico di aver sempre reagito alla spettacolarizzazione del ruolo dei pubblici ministeri».
Ci sta male tanto, vero?
«Sì. Questa volta la vivo davvero come una ingiustizia. Io mi sono sempre battuto per l’ambiente. Per 50 anni nessuno si era mai occupato dell’Ilva».
L’accusano di essersene occupato troppo.
«Prima del mio governo non era stato controllato neppure un camino. Quando mandai i miei ragazzi a monitorare il camino E312 i Riva gli negarono l’uso dell’ascensore. Io sono uno dei pochi politici che non frequentava quella gente».
«Dite a Riva che il presidente non si è defilato». Se la ricorda quella celebre intercettazione?
«Quella telefonata non c’entra niente. Appartiene al processo parallelo a questo».
Non era termometro di un clima?
«Si presta a qualunque interpretazione maligna se uno non sa qual era il contesto, con il sottoscritto che cercava di indurre i Riva a un passo indietro dalla decisione di licenziare 840 dipendenti».
Abbia pazienza, ma rivela anche la sua confidenza con il portavoce dei Riva.
«Non è certo il Girolamo Archinà emerso dalle carte giudiziarie, l’uomo capace solo di millantare quando parla con il suo padrone».
Ha millantato anche con lei?
«È scritto nelle carte del processo. La delibera per il bando che avrebbe dovuto sostituire il tecnico dell’Arpa sul quale sono accusato di aver fatto pressioni, non esiste. E dal 2010 in poi l’Arpa inasprì il suo giudizio sull’Ilva. Contro di me ci sono solo le incerte parole di quel signore e le convinzioni dei magistrati. Per questo confidavo nel proscioglimento».
Anche lei con la storia del teorema?
«Ogni accusa è un teorema. Penso che quella nei miei confronti sia molto fumosa».
Fumus persecutionis?
«Non mi spingo a tanto. Ma insomma: in quell’agosto del 2010, Berlusconi ha appena varato il decreto che sposta di tre anni l’entrata in vigore della direttiva europea sulla qualità dell’aria. Subito dopo Riva entra nella cordata dei presunti capitani coraggiosi incaricati di salvare Alitalia».
Arriviamo al punto?
«Bastava che mi attenessi a quanto deciso dal governo, e mai sarei in questa situazione. Perché l’inchiesta nasce dai controlli fatti dalla Regione Puglia».
Lo vive come un affronto?
«Piuttosto un torto, fatto soprattutto al buon senso. Certo, è vero che tengo molto alla mia storia di pacifista ed ecologista. Mi sono sempre sentito in debito con i bimbi di Taranto, ho pubblicato un libro con i loro disegni e le loro lettere. E ora invece sono accusato di aver chinato la testa davanti al potente che li avvelenava».
È la fine di Nichi Vendola?
«No. Affronterò il dibattimento, continuando a sognare una Italia in cui la giustizia non sia mai l’equivalente di un processo di piazza. Sono ferito, ma vivo».
Quanto le dispiace finire nel calderone del «sono tutti uguali»?
«Quando divenni presidente pensai, parafrasando le sacre scritture: “Da oggi sono nel Potere ma non sono del Potere”. Dopo dieci anni sono uscito dal palazzo con molta più esperienza ma la stessa integrità di quando ci sono entrato. E lo dimostrerò».