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 2014  maggio 09 Venerdì calendario

Il primo gol del Mondiale di calcio (1930)

Lulù è stato il primo, come il primo uomo sulla Luna, solo che non lo sapeva: un uomo senza la Luna. «Erano le tre del pomeriggio del 13 luglio 1930 a Montevideo, pioveva e tirava vento, poi si mise anche a nevicare. Feci gol al Messico dopo diciannove minuti con un tiro al volo su passaggio di Langiller, ci stringemmo la mano e via, niente di speciale. Ignoravo di avere appena segnato la prima rete nella storia della Coppa del mondo».
Non sapeva, Lucien Laurent detto Lulù, normalissimo calciatore francese (in tutto, solo 10 partite e 2 gol in nazionale), nato nel 1907 a Saint-Maur-des-Fossés, minuscolo centrocampista alto appena un metro e 62 centimetri, che quel racconto di un evento enorme eppure sconosciuto, storico ma inconsapevole, gli sarebbe toccato ripeterlo fino alla morte che arrivò tardissimo, a 98 anni, come se pure lei avesse voluto giocare molto a lungo con Lulù, obbligandolo a raccontare e raccontare. In quello stesso 13 luglio, pochi minuti dopo e in un altro stadio, l’americano Bart McGhee fece gol al Belgio: troppo tardi. Bart, l’uomo che non passò alla storia.
Nella selva del web c’è un filmato dove un vecchietto corre da solo, su un campo di calcio, con brevi passettini meccanici, mimando un’azione invisibile, senza palla, senza pubblico, senza niente, quasi senza ricordo. Quell’uomo è Lulù. L’identico sorriso che si affacciava da una vecchia foto di quel mondiale, Lulù è un ragazzo con i capelli pettinati all’indietro, impastati di brillantina. «Battemmo noi la palla al centro, ci sentivamo superiori ai messicani, anche se né noi né loro avremmo superato il primo turno. Vincemmo 4-1. Per arrivare in Uruguay avevamo viaggiato per quindici giorni in nave, sul Conte Verde, un piroscafo italiano partito da Genova. Ci allenavamo sotto coperta ma anche sul ponte. Dopo qualche giorno, tutti i nostri palloni erano finiti in mare. Gli altri viaggiatori protestavano per il baccano. Sulla nave c’eravamo noi e le squadre di Romania, Belgio e Jugoslavia. Neppure per un minuto il nostro allenatore ci parlò di tattica, e in quel mondiale non guadagnammo neanche un franco».
La Luna di Lucien non esiste più. Si chiamava Estadio Pocitos: pocitos, cioè piccoli pozzi, quelli del barrio popolare dove nell’Ottocento le lavandaie andavano a sciacquare i panni. Ora è una zona piena di palazzi. Gli archeologi dello sport, guidati dall’architetto Enrique Benech, nel 2002 hanno cercato di recuperare, grazie a foto aeree e planimetrie, il luogo esatto in cui venne segnato lo storico primo gol di cui non esistono filmati. Le cose si consumano, i luoghi svaniscono, i ricordi si sfarinano. Rimangono, di quel mondiale vinto dai padroni di casa contro l’Argentina, le immani difficoltà per organizzarlo: fu Jules Rimet a convincere le quattro squadre europee a partecipare, garantendo di persona che i giocatori non avrebbero perso il lavoro (erano tutti dilettanti, a quell’epoca: Lulù faceva l’operaio alla Peugeot). Chiese persino aiuto all’amante e futura moglie del sovrano di Romania, Carlo II, tale Magda Lupescu, perché convincesse il re ad intercedere a favore dei giocatori e dei loro stipendi.
Alla fine, il primo mondiale fu un successo anche economico, sebbene raggiunto attraverso non poche bizzarrie. Lo stadio del Centenario di Montevideo (i mondiali furono assegnati proprio per celebrare i cent’anni della Costituzione uruguaiana) venne consegnato in clamoroso ritardo, non mancarono risse tra spettatori né minacce di morte: l’arbitro della finale, il belga John Langenus, pretese un’assicurazione sulla vita a favore della sua famiglia, oltre a una scorta di cento di poliziotti e una nave pronta a salpare entro un’ora dalla fine della partita, se lui avesse avuto bisogno di fuggire. Le due finaliste litigarono anche per il pallone: alla fine si decise di usare per un tempo quello dell’Argentina, e nella ripresa quello portato dall’Uruguay.
Ma, a quel punto, Lulù era già scomparso dal mondiale: stava a casa sua, eliminato. Quattro anni più tardi, nel 1934, venne convocato dalla Francia ma non giocò neppure un minuto. La vita gli avrebbe riservato una guerra, la cattura da parte dei tedeschi, tre anni e mezzo di prigionia in Sassonia, una carriera da allenatore e l’apertura di una birreria a Besançon, dove morì l’undici aprile 2005. Dopo avere raccontato mille volte a tutti com’era la sua Luna, senza saperlo.