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 2015  luglio 23 Giovedì calendario

Breve storia del campionato di calcio di serie A (fino al 2005)

1898/1929
Dalle 4 squadre del 1898 alle 88 del 1921: in Prima Divisione c’erano Carignano e Casteggio, Ausonia Pro Gorla e Stelvio, Enotria Goliardo e Rivarolese, Dolo e Audax Roma. C’è di tutto nella storia dei primi trent’anni del campionato, anche tanta confusione.
Ci sono 9 scudetti del Genoa, che nel 1925 non riesce a conquistare il decimo, quello della stella (e ancora l’aspetta), perché la finale della Lega Nord con il Bologna finisce male: gol di Muzzioli forse grazie a un buco laterale della rete, ma il 2-2 della terza partita viene convalidato dopo l’invasione dei tifosi comandati dal gerarca Arpinati; la quarta finale a Torino finisce 1-1, alla stazione dove i treni dei tifosi si incrociano vengono sparati anche colpi di pistola, c’è qualche ferito; quinta partita a Milano alle 9 di mattina a porte chiuse, vince 2-0 il Bologna che in finale (16 e 23 agosto!) supera 4-0 e 2-0 l’Alba Roma vincendo il campionato.
Ci sono 7 scudetti della Pro Vercelli: il primo nel 1908 quando la Federazione boccia gli stranieri (e la Juve si ritira, vincendo un parallelo – e non valido – campionato federale), l’ultimo nel 1922 quando i campionati ufficiali sono addirittura due per una scissione, e quello con le squadre scarse lo vince la Novese. Non sono 8, i successi della vecchia Pro (ora in C2), perché nel 1910 schiera i ragazzini nello spareggio contro l’Inter, e perde 10-3, per protestare contro la decisione della Figc di giocare il 24 aprile, quando molti suoi giocatori sono impegnati in un torneo militare.
Ci sono 3 scudetti del Milan, il secondo (1906) a tavolino perché la Juve non si presenta sul campo (teoricamente) neutro dell’Us Milanese per giocare il secondo spareggio dopo lo 0-0 della prima finale a Torino.
Ci sono 2 scudetti della Juve, ma anche una retrocessione: sarebbe l’unica per i bianconeri, quella del 1913, ma li salva un ripescaggio nel girone lombardo per il campionato successivo.
C’è uno scudetto revocato al Torino, nel 1927: lo juventino Allemandi viene accusato di aver intascato 50.000 lire per perdere il derby. Il presidente federale, il gerarca Arpinati, ancora lui, lo squalifica a vita (in seguito Allemandi verrà amnistiato) ma non se la sente di assegnare lo scudetto al”suo” Bologna, secondo classificato, che aveva vinto il primo campionato nel 1925 e poi nel ’29 vincerà l’ultimo prima del girone unico. Che doveva essere a 16 squadre, ma viene allargato a 18 dopo un provvidenziale 2-2 nel primo spareggio fra Lazio e Napoli, anche per la necessità politica di ripescare la Triestina.
1929/49
Il girone unico parte con un crollo. E un pezzo di storia del calcio, vent’anni dopo, muore in uno schianto. Di mezzo c’è sempre l’Inter, o Ambrosiana come voleva il fascismo. Vincitrice del primo campionato di serie A, nel 1929/30, e ultima avversaria italiana del Grande Torino prima della tragedia di Superga.
Il 15 giugno 1930 a Milano arriva il Genova (altro nome cambiato nel Ventennio), staccato di 4 punti. Terzultima giornata. L’incontro non è ancora iniziato quando alcuni aerei sorvolano il campo di via Goldoni. La gente si agita, cade un albero, crollano le tribune di legno: 180 feriti, uno, portato in tribuna, dice a Meazza: «Se oggi vinci, io sarò già guarito». Negli spogliatoi non c’è ancora Allemandi, quello dello scandalo del ’27. Arriva mezz’ora prima del via, ha fatto a botte in piazza San Babila ed è stato portato in questura. Fa a botte anche in campo, viene espulso. L’Ambrosiana va sotto 0-2, poi 1-3, ma Meazza fa 3 gol, e sul 3-3 il genoano Banchero sbaglia un rigore. La domenica dopo per l’Ambrosiana è scudetto.
Poi è Juve. La Juve di CombiRosettaCaligaris. La Juve di Orsi, che da giovanissimo, in Argentina, il padre allenava così: si metteva contro un muro, la testa fra le braccia, e ogni volta che il figlio lo colpiva gli regalava 5 centavos. La Juve di Cesarini, sì, quello della”zona Cesarini” per un gol in Nazionale al 90’ contro l’Ungheria. La Juve di Monti, altro oriundo argentino: arrivò che pesava 92 chili, si allenò da solo per tornare in forma, «ma guardate che mi svegliavo alle 6 per non vedere quel maresciallo di Carcano». Carlo Carcano, l’allenatore. Vinse 4 scudetti consecutivi e non fece in tempo a vincere il quinto: lo cacciarono a metà campionato per le voci sulla sua presunta omosessualità.
Il 15 luglio 1935 muore Edoardo Agnelli, il nonno di Gianni: un incidente mentre sta ammarando in monoplano al porto di Genova. La Juve del quinquennio finisce in tragedia. Ma non è nulla, nell’immaginario popolare, di fronte a quella del Grande Torino. Grande, perché (dopo altri 2 scudetti dell’Inter, 4 del Bologna”che tremare il mondo fa” e persino uno della Roma, ma Mussolini non c’entrava: i figli avevano la tessera della Lazio) aveva vinto 5 campionati di fila. Segnando 474 reti in 183 incontri: anche 125 in un solo campionato, nel 1947/48, anche 10 (a zero) in una sola partita, all’Alessandria, il 2 maggio 1948, un anno prima dello schianto di Superga. Quattro maggio 1949, ore 17.05, finì contro la basilica l’aereo che riportava la squadra dall’amichevole di Lisbona: il campionato in tasca dopo lo 0-0 contro l’Inter, +4 a 3 partite dalla fine. Morirono tutti, morirono in 31: giocatori, dirigenti, piloti, giornalisti. Bacigalupo Ballarin Maroso Castigliano Rigamonti Grezar Menti Loik Gabetto Mazzola Ossola. Mazzola, che si rimboccava le maniche quando il tifoso trombettiere suonava la carica e il Torino triturava tutti. Valentino Mazzola, papà di Sandro: che quando si trovò di fronte Puskas, il fenomeno ungherese del Real Madrid, si sentì dire «tuo padre è stato il campione che ho ammirato di più, adesso so che sei degno di lui».
1949/82
Con”quel” Torino in Nazionale (c’erano finiti anche in 10: 11 maggio 1947, 3-2 all’Ungheria, unico intruso il portiere juventino Sentimenti IV), chissà, nel 1950 l’Italia avrebbe potuto fare il tris dopo i Mondiali vinti nel 1934 e 1938. Invece bisognerà arrivare al 1982 per farcela. Bearzot, il ct degli azzurri al vittorioso Mundial di Spagna, aveva appena esordito in serie A con l’Inter ma non era in campo, da avversario, per l’ultima partita italiana del Grande Torino. E aveva già lasciato l’Inter per Catania, purtroppo per lui, quando i nerazzurri vinsero due scudetti consecutivi, tra il 1952 e il ’54: uno con il”catenaccio” (Armano, finta ala, faceva quasi il terzino, e Blason retrocedeva a fare il”libero”, termine inventato da Brera), l’altro con il vecchio”sistema”, sempre con Foni in panchina. Altra storia, certo, lo spettacolo del Milan del Gre-No-Li (cioè Gren, Nordahl e Liedholm, i tre svedesi) e poi di Schiaffino, e la Juve di Charles-Boniperti-Sivori, le dominatrici degli anni 50. La panchina bianconera, poi, era questione di immaginazione. Nel 1949 Agnelli era andato dal presidente della Fifa, sir Stanley Rous, britannico: «Qual è il vostro miglior allenatore? Carver? Preso». Vinto uno scudetto, Carver si fa cacciare per un’intervista alla Gazzetta: «Dirigenti incompetenti, Agnelli non c’è mai, nessuno taglia l’erba del campo, volevo mandar via John Hansen, mi hanno comprato Corradi: ma chi è?». E nel ’57, poi, lo jugoslavo Brocic si raccomandò da solo, con una lettera in francese: «Vorrei fare l’allenatore della Juve». Preso. E vinse lo scudetto.
Altra cosa Helenio Herrera, il tecnico ispano-franco-argentino che si calava l’età e fece grande l’Inter negli anni 60. Raccontava Prisco, avvocato, dirigente, tifoso: «Ero in panchina con HH e vedo che Jair si fa il segno della croce.”Ma di che religione è?”, chiedo al Mago. E lui:”della mia”.”E lei di che religione è?”, chiedo. Risposta:”della moneta, della moneta...”». Premi doppi per Herrera, cartelli minacciosi negli spogliatoi scritti di suo pugno per SartiBurgnichFacchetti e compagni, 3 scudetti in 5 anni, uno perso allo spareggio, l’unico del girone unico, 7 giugno 1964 a Roma contro il Bologna di Bernardini (che già aveva vinto nel ’56 sulla panchina della Fiorentina), l’altro per la papera di Sarti a Mantova e il sorpasso-Juve.
Poi c’era Rocco, scudetto al Milan nel 1962 e nel 1968 (in campo, sempre, Rivera), avversario di Herrera ma spesso erano baruffe ad arte. Non è finto, invece, il 3-0 subìto nel derby l’8 novembre 1970: Herrera (tornato all’Inter subentrando all’omonimo Heriberto, che pochi mesi prima aveva perso il campionato contro il Cagliari di Giggirriva) viene licenziato, al suo posto Invernizzi che vince lo scudetto. Due mesi dopo, 13 luglio 1971, Boniperti diventa presidente della Juve. Dopo 5 scudetti in campo ne conquisterà 9 da numero 1, di cui ben 7 fra il 1971 e l’82: una serie cominciata con CarmignaniSpinosiMarchetti e finita con ZoffGentileCabrini, ma Furino, lui, in campo c’era sempre. Fra le poche interruzioni del dominio bianconero, quelle della Lazio di Chinaglia (1974) e del Torino di Pulici-Graziani, i gemelli del gol (1976), 27 anni dopo Superga, 12 anni dopo l’ultima partita in granata di Bearzot, passato pure da lì. Bearzot, l’uomo del trionfo mondiale che chiude un’altra”era” del calcio italiano.
1982/2005
E il resto, il resto è cronaca più che storia. Nel 1983 la Roma di Falcao vinse lo scudetto senza saperlo il 1° maggio ma lo festeggiò solo 7 giorni dopo, a Genoa, perché lo 0-2 a tavolino di Juve-Inter arrivò in ritardo. I due scudetti della Juve di Trapattoni e Platini, inframmezzati da quello del Verona, con il danese Elkjaer che segnava ai bianconeri anche senza una scarpa: era il 1985. Poi Maradona: così forte da far vincere al Napoli due campionati, e non era mai successo, così debole da riempirsi di cocaina e da farsi fotografare con i boss della camorra. Quella stessa camorra che, voce più volte smentita, avrebbe fatto pressioni per il sorpasso del Milan, 1988, su un Napoli che sembrava avere in tasca un altro scudetto. Il Milan di Sacchi, il martello, e degli olandesi: ma quell’anno c’era quasi solo Gullit, perché Van Basten era infortunato e giocò appena 11 partite, e Rijkaard non era ancora arrivato. Poi il Trap, ancora lui, capace di far vincere il campionato pure all’Inter, che da quel 1989 ancora se lo sogna.
E poi gli anni 90. Inaugurati dal trionfo della Samp di Vialli-Mancini, con Vierchowod che finalmente vinceva lo scudetto nella sua squadra, dopo averlo sfiorato alla Fiorentina e conquistato alla Roma, sempre in prestito. Poi Capello, altro che yes-man: dirigente della polisportiva catapultato in panchina, con i giocatori che per Sacchi erano bolliti (’O io o Van Basten”), fa vincere al Milan 4 scudetti in 5 anni. Lippi, alla Juve, ne vince 5 ma di anni ce ne mette 9: parte nel ’95, col tridente Vialli-Del Piero-Ravanelli su cui il recente processo ha gettato l’ombra del doping (ma ha pagato solo il medico Agricola), chiude nel 2003, e Del Piero c’è sempre.
Ci sono altri due Milan che vincono: nel ’99 quello di Zaccheroni e nel 2004 quello di Ancelotti, uno rimontando la Lazio e l’altro battendo la sua vecchia Roma. Loro, le romane, conquistano uno scudetto a testa, seguendo al folle mercato l’impennata dei prezzi causata nel decennio precedente da Berlusconi: Cragnotti si rovinerà, Sensi quasi, Veron-Nedved-Salas-Boksic da una parte (con Nesta unico campione del vivaio), Batistuta mister 70 miliardi dall’altra, in panchina Eriksson di qua e Capello di là.
Capello, proprio lui, chiude la storia a modo suo. Rescisso il contratto con la Roma va alla Juve, di cui aveva detto peste e corna negli anni giallorossi. Impone il mercato, si fa prendere Cannavaro e Ibrahimovic, sostituisce sempre Del Piero, diventa il primo allenatore a vincere lo scudetto in tre città diverse, Torino dopo Milano e Roma, per tacere di Madrid. Complimenti.