Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  luglio 23 Giovedì calendario

Gli sportivi e la Grande Guerra

All’alba della Grande Guerra, il mondo dello sport italiano «fu immediatamente filo-interventista con le sue federazioni e la sua carta stampata: il 10 giugno 1915 Lo Sport Illustrato diveniva Lo Sport Illustrato e la Guerra e il settimanale torinese La Stampa Sportiva si trasformò celermente in L’Illustrazione della Guerra e la Stampa Sportiva. Uno sport, ancora, che l’ideologia futurista, valorizzandone i caratteri di straordinaria modernità, manipolò facendone un simbolo del proprio esasperato interventismo. “Guerra sola igiene del mondo e meraviglioso sport sintetico” proclamava Filippo Tommaso Marinetti; e la sua corrente pressoché al completo (Umberto Boccioni, Antonio Sant’Elia, Luigi Russolo, Anselmo Bucci, Mario Buggelli, Carlo Erba, Virgilio Funi, Ugo Piatti…), alla dichiarazione italiana di guerra, si sarebbe entusiasticamente arruolata con lui in quel Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti Automobilisti che, ai loro occhi, incarnava al meglio la novità e il dinamismo rivoluzionario del conflitto».
• «Dai quattro anni bellici uscì sconfitta in modo specifico la ginnastica: la disciplina, che all’interno del Paese godeva di grande tradizione, aveva ottenuto i più significativi successi olimpici e, tramite la sua estesa rete associazionistica, copriva abbastanza capillarmente l’intero territorio della penisola. Principale forma di addestramento, la ginnastica militare d’impronta vetero-risorgimentale si rivelò assolutamente inadeguata di fronte al logorio psico-fisico derivante al soldato dalla stressante “guerra di posizione” in trincea. Noiosa, ripetitiva e meccanica, la ginnastica militare apparteneva a un modo di combattere ormai superato, reso obsoleto dalla guerra tecnologica consacrata proprio dal conflitto in corso; e, seppur con colpevole ritardo, subì anch’essa i contraccolpi della disfatta di Caporetto, venendo progressivamente sostituita da altre modalità addestrative».
• «Alle esercitazioni di palestra, con Diaz e il nuovo Stato Maggiore, inizieranno pertanto a sostituirsi quelle pratiche (calcio, basket, atletica leggera, pugilato, eccetera), già largamente in uso presso i reparti alleati e che risultavano assai superiori in efficacia bellica funzionando da leva di socializzazione e integrazione fra la truppa, migliorandone lo spirito di corpo e instillando nei singoli spirito d’iniziativa e audacia. Qualità, queste ultime, che si ritroveranno tutte travasate nel più sportivo e aggressivo dei corpi partoriti dal trauma caporettiano: gli Arditi».
• «La medesima Italia e il suo esercito, originando un processo che progressivamente si estenderà al tessuto sociale e sportivo del Paese, dalla Grande Guerra trassero quindi la moderna lezione “atletica” trasmessa dalle armate americane, inglesi, francesi; si aprirono finalmente al nuovo, ai giochi di squadra, all’agonismo, e, fin dalle Olimpiadi Militari Interalleate tenute a Parigi nel giugno-luglio 1919 (il primo trasparente esempio di boicottaggio nella storia dello sport contemporaneo, vietandone il generale statunitense Pershing la partecipazione a tutti i Paesi sconfitti), diedero saggio di questa metamorfosi. Lì, nella capitale d’Oltralpe dove erano in svolgimento le complesse trattative di pace, nella boxe (massimi) il titolo “olimpico” tra militari vincitori della guerra andò al nostro Erminio Spalla (41° Fanteria), e nella scherma s’impose il sommo Nedo Nadi, tenente del 14° Reggimento Cavalleria Alessandria».
• «Davvero troppo poco sarebbe definire Erminio Spalla “solamente” un pugile: perché per questo ragazzo nato il 7 luglio 1897 a Borgo San Martino, in provincia di Alessandria, le mani furono davvero qualcosa in più dell’“arma” da caricare per spedire al tappeto l’avversario di turno. Quei pugni, quelle mani, furono per Erminio lo strumento attraverso cui esplorò il mondo, costruì il suo destino, raccontò la sua vita, lui che – oltre che grande boxeur – fu scultore, attore, pittore, ebbe ambizioni di cantante lirico e si rivelò pure fine scrittore».
• Nonostante sia passato alla storia per i suoi successi da pugile, quand’era ancora un ragazzo «la prima grande passione di Erminio, ben presto trasferitosi a Milano con la famiglia, sarà tutt’altra: la scultura. (…) Lavorare il marmo durante il giorno, poi lo studio all’Accademia di Brera dalle sei alle otto, e poi ancora palestra dopocena: così era cadenzata la giornata di Erminio. Ma il pugilato era ancora cosa lontana».
• «È gustoso il racconto di Erminio a proposito di come incontrò, del tutto casualmente, il ring e il pugilato, con l’aiuto decisamente involontario del fratello. Dopo esser stato spinto da Giuseppe [il fratello maggiore, fabbro e poi buon pugile anch’egli – ndr] a marinare la lezione di scultura per distribuire volantini pubblicitari di un cinema milanese, e aver quasi rischiato d’essere picchiato a sangue da alcuni operai che non avevano visto di buon occhio quei foglietti girovagare durante una loro assemblea all’Arena, il giovane Erminio trova rifugio nello stesso cinema di via Canonica. La sala buia, lo schermo illuminato, a proiettare uno spettacolo unico per quel giovanotto: il match valido per il campionato del mondo tra il negro Jack Johnson e il gigante Jim Jeffries. Per Erminio e Giuseppe è amore a prima vista. La boxe entra nel loro cuore… e nella loro cameretta, con la sorella a fare da improvvisata cronometrista per altrettanto improvvisati match fra i due fratelli! Fin quando non interverrà la mamma, a forza di colpi di ciabatta, a mettere entrambi knock out e a spingere i due verso il più consono ring di una palestra».
• «In realtà, sarà un episodio ben preciso a determinare la scelta di Erminio: “Avevo allora 15 anni circa. Con certi amici ero solito andare a nuotare nel nostro Naviglio, nelle vicinanze del Ronchetto. Una domenica, proprio in quello specchio d’acqua, si stava svolgendo una grande gara di nuoto. A un tratto un membro della Giuria – un giovanottone dall’aria imperiosa e forte – con un richiamo energico e poco forbito mi ordina di uscire dall’acqua. Nonostante avesse ragione, il suo tono mi piacque poco. Risposi calmo: Oui: el Navilli el sarà minga to dì volt? (il Naviglio non sarà mica tuo, alle volte?). Fu come mettere fuoco a una mina!”. L’altro si tuffa e subito è lotta tra i due “caimani”: “Mi immerge due, tre volte nel liquido, ben sotto. Vi assicuro che per tutto il giorno non ebbi sete”, ricorda ironico Spalla. Meglio non va con il pugilato (“Mi trovo investito da un tale temporale di shrapnels a cinque dita”) né con la lotta. Fortuna vuole, per Erminio, che già s’intravvedono i primi nuotatori giungere al traguardo: “Molla – mi fa lui – andemo a veder l’arriv che dopo comenciarem da cap!”. Ben presto la voglia di menar le mani passa a entrambi e a guadagnarci stavolta è proprio Spalla: “Il ‘tipo’ (lo seppi dopo) era nientemeno che Amilcare Beretta, campione di boxe dei pesi medi, lottatore straordinario, asso dei nuotatori della Rari Nantes, e che col suo coraggio e la sua valentìa aveva compiuti una trentina di salvataggi nel Naviglio stesso!”».
• «Il breve volgere di poche righe, e la penna di Spalla ci porta al fronte, con i due “caimani” ancora insieme, a contorcersi stavolta non in un’acquatica zuffa, ma in un letto d’ospedale: “Quando più tardi incontratici, feriti tutti e due, in un ospedale di guerra, e diventati amici intimi, col Beretta ricordavamo insieme quelle tre immersioni nel canale milanese, egli non poteva esimersi dal commentare: ‘Non dirai che io non ti abbia tenuto a battesimo!’. Era difficile contraddirlo”».
• «A quel tempo, il destino di Erminio Spalla era già tracciato: peso massimo dotato fisicamente, possente e combattivo, formatosi nella palestra dell’U.S. Milanese, aveva esordito tra i professionisti nel 1916. Ma arrivò poi la guerra a costringere “il milanese” a salire su ben altro ring: “Il 41° fanteria era il mio reggimento e ci trovavamo in Val Giudicaria (nel Trentino occidentale, N.d.A.)”, ricorda il pugile». Anche al fronte non gli mancarono comunque le occasioni di esercitare la propria abilità pugilistica. Una volta, in una zuffa d’osteria, stese a terra un soldato inglese, che scoprì poi essere un campione di pugilato; Spalla fu quindi convocato da un capitano inglese, il quale, dopo essersi complimentato, «mi parlò dell’arte di dare i pugni, e mi diede anche delle lezioni, specializzandomi e rivelandomi più a fondo i segreti della noble art».
• «Il comandante di compagnia segnala Spalla alla squadra di ginnastica del comando supremo. Da qui al ring il passo è breve; ancor più corto quello che porta il “sergente Spalla” a sfidare per ben due volte il “tenente Negri”. Nella prima occasione Erminio si becca sei giorni di consegna dal suo capitano, Baggini, “per averle buscate troppo presto”. Nella seconda, capita la lezione e superato il timore reverenziale, Spalla sferra il suo shut e “il tenente, che non se l’aspettava, casca indietro a gambe levate”. K.o. dai risvolti agrodolci: Negri non la prese benissimo (Spalla venne consegnato per sei giorni…), ma quel successo aprì al nostro le porte per la convocazione ai Giochi Interalleati Militari di Joinville che – sopraggiunto nel frattempo l’armistizio – avrebbero celebrato il successo dell’Intesa». E celebrarono anche il trionfo di Spalla, una volta sconfitto il temibile australiano Pettibridge nella finale dei massimi. «“Qualche giorno dopo il generale Pershing, comandante in capo delle forze americane, durante la cerimonia di premiazione mi consegna il diploma di campione del mondo dei militari e mi dice alcune parole che chi sa quante belle cose avranno voluto dire…”, ricorda con compiaciuta ironia il campione».
• Dopo alterne fortune, Spalla si ritirò dal ring nel settembre del 1927, in seguito alla sconfitta per il titolo italiano contro Riccardo Bertazzolo. «Ma è ancor più sorprendente ciò che Erminio saprà fare una volta sceso da quel quadrato magico. Amico dei grandi cantanti Enrico Caruso e Beniamino Gigli, tenterà la strada della lirica, senza lasciare mai l’amata scultura e la pittura. E la spontanea ironia, il gran fisico e il bel viso che con maestria aveva saputo proteggere dai tanti colpi dei boxeur avversari ne faranno uno dei volti più ricercati dal cinema e dalla commedia all’italiana. Due titoli su tutti, tra la cinquantina di film che lo videro tra i protagonisti: Miracolo a Milano, per la regia di Vittorio de Sica, nel 1951, e Poveri ma belli, di Dino Risi, nel 1957».
• Vittorio Pozzo, «per paradosso, per l’Italia di inizio Novecento e fino al Secondo Dopoguerra, fu qualcosa di più e di diverso del commissario tecnico che pure seppe portare la Nazionale al doppio successo mondiale consecutivo (1934-1938, record ancora imbattuto per un allenatore) e all’oro olimpico (Berlino 1936) nel breve volgere di un quadriennio. Per quell’Italia Pozzo fu, oltre che impareggiabile uomo di sport, anche ambasciatore nel mondo e intellettuale fatto e finito, lui poliglotta (parlava senza incertezze francese, inglese, tedesco), viaggiatore, fine giornalista dalla prosa sicura e ironica per La Stampa di Torino e, contemporaneamente, dirigente della Pirelli».
• Se Pozzo legò buona parte della sua vita al Torino, quand’era ancora un ragazzo fu però «uno juventino, Giovanni Goccione, primo grande centromediano dei bianconeri, a spingere Pozzo, fin lì appassionato praticante di atletica, a cimentarsi nel football, come ricorda lo stesso cittì nelle sue memorie: “Mi disse, un giorno, Goccione: ‘Senti, quando ti vedo correre, e con te gli altri, sui 100, 200, 400 così con nessuno né niente davanti, sai cosa mi fai venire in mente? Quelle macchine che si vedono in giro adesso, senza nessuno che le tiri, che le trascini. Pare che corrano dietro alle mosche. Così tu, quando hai corso ben bene, cosa hai preso? Al football almeno hai davanti a te qualche cosa, non corri per niente. Piantala, vieni di qua’. L’arma del ridicolo. Così feci, a poco per volta, lo scivolone dall’atletica leggera al calcio…”».
• Rapidamente «Pozzo diventa il motore primo del calcio italiano: prima nel ruolo di segretario federale, poi addirittura – ad appena 26 anni – come commissario unico della squadra nazionale che prende parte alle Olimpiadi di Stoccolma 1912! La partecipazione azzurra fu avventurosa, volenterosa e sfortunata, con la doppia sconfitta contro la Finlandia per 3 a 2, e con un severo 5 a 1 contro l’Austria, nella semifinale del torneo di consolazione. (…) Malgrado l’insuccesso sul campo, l’esperienza di Stoccolma sarà fondamentale per la crescita del movimento calcistico nazionale e la formazione del Pozzo uomo di calcio».
• «La guerra raggiungerà Pozzo in modo sorprendente e imprevedibile. Allo scoppio del conflitto il tecnico
sta preparando l’importante tournée sudamericana del suo Torino. È il 22 luglio 1914 quando la squadra salpa da Genova a bordo del Duca di Genova della compagnia marittima Veloce, destinazione Brasile». Tre mesi e molte avventure dopo, quando il Torino fa ritorno a bordo del piroscafo Duca degli Abruzzi, «la scena dell’arrivo a Genova, sempre descritta da Pozzo, è un fulminante ritratto della tragedia incombente: “All’arrivo a Genova, uno degli amici che ci aspettavano sul molo agitava, nella mano, una quantità di fogli verdi-gialli. Erano i richiami per la mobilitazione o esercitazione. Ce n’era per tutti, ci volevano da tutte le parti: 3° alpini, 4° bersaglieri, 5° genio minatori, 92° fanteria. Impallidimmo. Quella guerra, sulla cui durata avevamo tanto scherzato, era lì con le fauci aperte, a ghermirci”».
• Ben presto «quegli uomini, che fino ad allora s’erano abbracciati per un gol o disperati per un rigore fallito, si ritrovano fianco a fianco in trincea. (…) Vittorio Pozzo se li porterà dentro per tutta la vita, i suoi ragazzi, i suoi alpini, a fianco dei quali combatté per tutto il conflitto nei settori più difficili del fronte: le Tofane, il Monte Nero, la Carnia, la Bainsizza, il Grappa. Perché alpino Pozzo rimase per sempre, coltivando la memoria di quei giorni dolorosi e terribili. Sempre però lontano da quella retorica di cui ben presto la sua figura leggendaria si ritrovò, suo malgrado, ammantata».
• «Ci fu un momento particolare, in cui lo spirito di quella straordinaria Nazionale si fuse con il ricordo ancora vicino di quell’immane epopea che era stata la guerra. È il maggio del 1930, e Pozzo sceglie il paesino di Tarcento, in Friuli, vicino Udine, per preparare la trasferta di Budapest contro l’Ungheria, decisiva per l’assegnazione della prima Coppa Internazionale, che oltre a italiani e ungheresi vede in campo Austria, Cecoslovacchia e Svizzera: al netto dei maestri inglesi, il meglio del calcio europeo. “Prima della trasferta ungherese – scrive Pozzo – io avevo portato i giocatori sui campi di battaglia della Grande Guerra: prima a Oslavia, poi a Gorizia. Al ritorno da Gorizia decisi di passare per Redipuglia. Lasciai che i ragazzi nostri vagassero a lungo fra le tombe e i cimeli dello storico museo risorgimentale. In piena libertà. Quando li vidi tornare, impressionati, pensierosi, cogitabondi, pensai di battere il ferro finché caldo. Li radunai. Dissi loro che era logico e naturale, che era giusto e bello che quel mesto e terribile spettacolo avesse lasciato tanta impressione nel cuore di italiani. Dissi loro che quanto noi saremmo stati chiamati a fare un paio di giorni dopo in terra straniera era nulla a confronto di quanto, su quei colli lì tutt’attorno a noi, avevano compiuto coloro che avevano lasciato la vita combattendo. Che ricordassero, che non dimenticassero. La nostra era un’impresa di un calibro, di una importanza infinitamente minore, ma noi dovevamo trarne ispirazione e decisione per fare tutto quello che da noi a casa si attendeva. Questo dissi – mentre altri ascoltavano tutt’attorno – in quattro parole, nel modo e nel tono semplici e naturali, in cui poteva parlare un vecchio soldato…”. Tripletta di Meazza, acuto di Magnozzi, assolo di Costantino: questo il tabellino del leggendario 0 a 5 con cui quell’Italia, l’11 maggio 1930, alle quattro del pomeriggio, nello stadio Ferencváros di Budapest, batteva per la prima volta in trasferta l’Ungheria, conquistando la prima edizione della Coppa Internazionale. Cominciava così la leggenda di Vittorio Pozzo, l’allenatore-alpino».
• «“Piede da trincea”: lo chiamavano così, sul fronte occidentale, quel malanno che tra i soldati immersi nel fango, esposti alla neve e alla pioggia, vittime di topi e pidocchi, faceva tra la Somme e Verdun più danni di bombe e granate. Il piede, costretto magari per giorni e giorni in scarponi che spesso si sfaldavano tra le nevi invernali e il torrido sole estivo, cominciava prima ad arrossarsi, poi a gonfiarsi, immobilizzando di fatto il soldato tra lancinanti dolori».
• La primavera del 1910 vide l’esordio della Nazionale italiana di calcio: «“Il 15 maggio, domenica di Pentecoste, l’Italia sfida la Francia che è reduce da un pesante 10-1 subìto dagli inglesi e dal 4-0 rimediato contro il Belgio. Si gioca all’Arena, a due passi da Brera nel centro di Milano e il fischio d’inizio dell’inglese Goodley, arbitro dipendente della Juve, scatta alle 15.45… Gli italiani – non ancora azzurri – giocano in camicia bianca, con colletto e polsini inamidati. Non ci sono abbastanza soldi per una divisa da gioco nuova e uguale per tutti: qualcuno ha i pantaloncini bianchi, altri li indossa neri”. Questa la formazione degli undici campioni-pionieri: “Tra i pali c’è Mario De Simone, i due difensori sono Francesco Varisco e il capitano Francesco Calì (28 anni, il più vecchio del gruppo); a centrocampo si muovono Attilio Trerè, Virgilio Fossati e Domenico Capello; in attacco, il fronte è composto da Arturo Baiocchi, Giuseppe Rizzi, Aldo Cevenini, Pietro Lana ed Enrico Debernardi”». Prima partita, prima vittoria: quel giorno l’Italia trionfò sulla Francia per 6 a 2.
• Nato a Novara nel 1895, Mario Meneghetti, detto il Miniga, fu tra i fondatori della squadra di calcio cittadina, e una delle sue colonne portanti dagli anni Dieci sino agli albori degli anni Trenta (a parte due stagioni alla Juventus, con la quale conquistò lo scudetto del 1925-26). Con l’entrata dell’Italia in guerra, «già il 15 maggio 1915 viene richiamato e assegnato al 153° reggimento, brigata Novara. Si mette subito in luce, grazie a quella determinazione e fierezza che già aveva mostrato come footballer: il 25 settembre dello stesso anno è nominato aspirante ufficiale, il 1° dicembre 1915 è sottotenente di complemento nell’arma di fanteria».
• Fatto prigioniero dagli austriaci nel gennaio 1916, Meneghetti fu dapprima rinchiuso nel campo d’internamento austriaco di Mauthausen, poi in quello ungherese di Dunaszerdahely: di qui, dopo una serie di tentativi falliti, nel gennaio 1918 riuscì rocambolescamente a fuggire insieme a due connazionali, travestendosi da soldati austriaci. Al termine di un’odissea di otto giorni, tra peripezie ferroviarie e scalate alpine lungo il confine austro-elvetico, i tre misero finalmente piede nella neutrale Svizzera: «“Dopo due ore di marcia scendemmo decisamente e potemmo scorgere il primo paese svizzero: Münster. Da un vecchio che scendeva con la slitta volli la conferma, e allora sembrammo dei pazzi: salti, abbracci, evviva all’Italia, e poi di corsa a ruzzoloni verso il paese… era il 16 gennaio 1918”, scrive il Miniga. (…) “L’autorità svizzera di confine venne informata del fatto e mentre eravamo a tavola entrò un loro ufficiale. Dopo gli interrogatori e gli accertamenti, vedevo che continuava a fissarmi. Finalmente si decise a chiedermi: ‘Siete sportsman?’. ‘Sì’; ‘Giuocatore di calcio?’. ‘Sì’; ‘Il capitano del Novara, forse?’. ‘Sì’; ‘Io sono Neumeyer, centro-half del San Gallo’. Ci eravamo incontrati in una tournée del Novara in Svizzera, e non aveva dimenticato i miei connotati”».
• «In quella guerra, in particolare sul fronte montano italo-austriaco, per il soldato il mulo non era solo affidabile e instancabile mezzo di trasporto, ma compagno d’armi, di sofferenze, di notti insonni e di stranianti veglie, di parchi pasti e d’interminabili ascese. Non di rado quel mulo laborioso e paziente, allora, “se ne va bonariamente ad annusare il tascapane del suo soldato, che è sempre pieno delle cose più meravigliose, dal pane allo specchietto al ritratto dell’amorosa, riuniti in un commovente connubio…”. Compagno di vita e di morte fu spesso quel mulo, se è vero che otto milioni fra muli, asini e cavalli perirono in quell’immane carneficina: sacrificio inconsapevole, figlio dell’obbedienza e della mitezza».
• Classe 1892, riformato più volte e infine assegnato ai servizi sedentari, il mantovano Tazio Nuvolari «pure in divisa grigioverde seppe far valere la sua abilità alla guida. Come? Nel delicato ruolo di pilota di ambulanze. E non tutti, tra le gerarchie militari, ne apprezzavano le spericolate prestazioni, se è vero – come ormai leggenda vuole – che nell’assolvere quel compito Il Mantovano Volante seppe meritarsi “encomi per il suo coraggio ma anche della ‘schiappa’ da qualche ufficiale, che male sopportava le sue acrobazie motoristiche”, al punto che qualcuno dei suoi superiori lo consigliò vivamente di non insistere oltre, con quella passione sfrenata per i motori…».
• «Malattia, sofferenza e dolore segnano l’esperienza militare di Enzo Ferrari. Un sottile filo rosso comune a molti, in quel periodo». La stessa guerra «aveva prima esaltato, poi inghiottito, il mito di Francesco Baracca, asso della nostra aviazione caduto a Nervesa nel giugno 1918. “Conobbi il conte Enrico Baracca, padre dell’eroe – scrive Ferrari – in occasione di una visita che mi fece all’agenzia di Bologna dell’Alfa Romeo, della quale ero titolare. Nacque una specie di conoscenza amichevole che si rinsaldò quando io andai a correre al circuito del Savio, vicino Ravenna, nel 1923 e 1924. Ci frequentammo, conobbi anche la moglie del conte, la contessa Paolina Bianconi, venni invitato a casa loro a Lugo e a San Potito. E da lì – sottolinea Ferrari – nacque una spontanea offerta della signora contessa: Ferrari, se metterà il cavallino sulle sue macchine, le porterà certamente fortuna, mi disse. Io accettai. Questa, e nessuna altra, è la vera storia. Il cavallino era ed è rimasto nero. Io aggiunsi il fondo giallo, che è il colore di Modena”».
• «Del 1924 è il primo incontro tra Ferrari e Nuvolari, e appena cinque anni dopo il mantovano entrerà nella Scuderia Ferrari, diventandone il portabandiera. Seguiranno vittorie, trionfi sconfitte, gioie, liti, rotture e riappacificazioni tra i due uomini che forse più di ogni altro sono il simbolo dell’Italia dei motori nel mondo».
• «Una notte venne trasportata a valle la salma di un alpino ucciso nel tentativo di assaltare la posizione di Tre Dita, e che i suoi commilitoni dovettero abbandonare sul posto per soccorrere i feriti. La mattina dopo, prima di dare sepoltura al caduto, insieme ad altre salme italiane e austriache, aprendo la giacca del morto, in una tasca interna si rinvenne una lettera trapassata dal proiettile che gli aveva squarciato il cuore… La lettera era di data recente e proveniva dal bellunese. Era la mamma che scriveva al figlio soldato che… era appena stato a casa in licenza. Ella sperava si trovasse bene in salute e gli chiedeva se gli avevano cambiato le scarpe… La lettera terminava con tante raccomandazioni e auguri che solo una madre, nella sua bontà e comprensione, poteva esprimere… Così venne sepolto quell’alpino, non più nemico, e gli stessi suoi avversari pregarono per lui, con gli occhi lucidi di pianto» (Luciano Viazzi, Le aquile delle Tofane, Mursia 1974).
• «Quattro miliardi. Sì, avete letto bene. Quattro miliardi. Tante furono le lettere e le cartoline movimentate in Italia durante il primo conflitto mondiale. Due miliardi furono quelle indirizzate dal fronte al Paese, circa un miliardo e mezzo in senso inverso e le altre da una parte all’altra del fronte. Un ponte di carta e inchiostro che tenne uniti uomini, donne, famiglie, destini, vite, attraverso e oltre la guerra, attraverso e oltre la morte. Carta e inchiostro per creare un tessuto connettivo e tenere insieme i pezzi di un mondo, di un’epoca, di un secolo appena nato e che già stava andando in frantumi».
• A Torino, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, alcuni ragazzi ancora studenti «s’erano innamorati del football a forza di vedere qualche pioniere tirar calci a una palla sui prati del Valentino. E lì correva ogni giorno, quel manipolo di quindici-diciassettenni, non appena suonava la liberatoria campanella nelle aule del ginnasio-liceo Massimo d’Azeglio. Da lì, a far una colletta per trovare le dodici lire necessarie per comprare un vero pallone made in England, il passo è breve. Ben più complessa la discussione per la scelta del nome: “All’onore della votazione s’avanzarono tre nomi: Società Via Fort, Società Polisportiva Massimo d’Azeglio, e Sport Club Juventus. Per quest’ultimo pochi simpatizzavano, ragione per cui riuscì a imporsi”, raccontava ironico Enrico Canfari, classe 1877, che col fratello Eugenio di quel gruppo di appassionati adolescenti era stato l’animatore. “Fra gli oppositori – continuava divertito Enrico, che del club sarà poi anche il secondo presidente, dopo Eugenio – c’ero proprio io: mi sembrava che quel Juventus più non s’addicesse a soci fatti maturi. Avevo torto: nella Juventus non s’invecchia… invecchia invece la juventus”».
• «Saranno i Canfari a trovare la piccola scuderia che sarà la prima sede del club; sarà la loro mamma, Adele Dalmazzo, insieme alla cugina Eva Caligaris, a ritagliare e cucire le camicie rosa che diventeranno la prima divisa della squadra, nel frattempo diventata Football Club Juventus. Di lì a qualche tempo arriveranno direttamente dall’Inghilterra le maglie bianconere del Notts Country, leggendario emblema della squadra (anche se non pochi di quei footballers avrebbero preferito le rosse casacche del Nottingham Forrest…), e anche il primo scudetto, nell’anno di grazia 1905. Ma passa appena un anno che, da una falange eversiva del sodalizio juventino, il 3 dicembre 1906 nasce il Football Club Torino, e allora eccole le sfide, la rivalità, la bonomia degli sberleffi tra le due principali squadre calcistiche cittadine».
• «“Omaggio degli Juventini rimasti a Torino, ai loro consoci sotto le armi”, si legge sulla testata di Hurrà
Juventus, il bollettino sociale che inizia le sue pubblicazioni nel giugno del 1915, col chiaro intento di mantenere unita la famiglia juventina nel turbinio del conflitto, come enunciato nel primo numero: “Gli juventini sono fratelli, non avvertono l’affetto che nel distacco. Sbandati dal turbine, cercano ora di tessere una trama, sia pur sottile, che li leghi e li renda presenti gli uni agli altri. Vi riusciranno, perché tutto riesce nella Juventus! Detto, fatto: si fonda un Bollettino, un passe-par-tout, che dovrà raggiungere il fronte, insinuarsi nelle trincee e, richiedendolo il bisogno, finire nelle retrovie…”».
• «Il giuocatore di prima squadra Giuseppe Giriodi scrive, e l’Hurrà!, il cui motto è “La vittoria è del forte che ha fede”, pubblica: “Sto bene, anzi benone. Il mio piede calca terra già austriaca, e mi pare che basti. A dieci minuti da noi corre l’Isonzo, che più a monte serve già a lavare la faccia e… il resto ai nostri bersaglieri. I miei alpini, benché un po’ stanchi pei continui spostamenti, sono animati dal più bel coraggio e la loro speranza migliore è di poter fare la festa a qualche plufer prima di andare all’altro mondo”».
• «Una baldanza che si ritrova, ancor più enfatizzata dalla similitudine tra linguaggio bellico e sportivo, anche nelle parole che Benigno Dalmazzo, uno dei più talentuosi boys juventini, partito volontario ad appena vent’anni, indirizza in quei giorni ad Alfredo Armano: “Il Girone sarà lungo, ma otterremo il Campionato; se non basta il tempo regolamentare faremo delle riprese supplementari, ma la débacle degli avversari sarà clamorosa e il Capitano Cecco Beppe sarà costretto a dare le dimissioni…”».
• «“Non desidero che di trovarmi vis-à-vis o meglio vis-à-dos con un austriaco per fargli provare la potenza degli shuts juventini”, scrive un altro bianconero, Ernesto Boglietti, a Sandro Zambelli il 24 luglio 1915. Zambelli fu uno dei fondatori di Hurrà! e in seguito anche presidente del club».
• «Entusiasmi e slanci che nelle trincee si affievoliranno ben presto, e non di poco». Numerosi furono infatti gli uomini della Juventus caduti in guerra, tra i quali lo stesso Enrico Canfari, capitano del 112° reggimento (brigata Piacenza) abbattuto il 22 ottobre 1915 sulla Cima 4 del Monte San Michele, punto strategico sulla strada verso Gorizia, e Benigno Dalmazzo, tenente e comandante di compagnia del 162° reggimento (brigata Ivrea) ucciso il 1° luglio 1916 nel corso dell’assalto alle pendici del Monte Interrotto, sull’Altopiano di Asiago.
• Ancora contro la Francia fu disputata la prima partita dell’Italia dopo la guerra, «il 18 gennaio 1920, alle 14.30 al Velodromo Sempione. Feroci, nei giorni precedenti la sfida, le polemiche per la composizione della formazione azzurra, determinata da una Commissione Tecnica e guidata in panchina da Antonino Resegotti. (…) Il pomeriggio milanese del Sempione si rivela un trionfo: gli azzurri (per l’occasione in maglia bianca) battono i transalpini (arrivati in treno a Milano appena un’ora prima del match, con l’accelerato da Domodossola!) per 9 a 4, con tripletta di Cevenini III e Brezzi, doppietta di Aebi e assolo di Carcano».
• «“Datemi un po’ d’acqua del mio lago!”. Moriva così, col pensiero rivolto alla fresca acqua del suo lago di Como, Giuseppe Sinigaglia, sottotenente del II reggimento granatieri di Sardegna, ferito a morte sulla cresta del Monte San Michele e spirato, tra le braccia del tenente Verdelli, nell’ospedaletto allestito dall’esercito italiano a Villa Steffaneo-Roncato, a Craglio, in Friuli. Erano le 15.15 del 10 agosto 1916». Anche La Gazzetta dello Sport celebrò commossa la morte di quel canottiere, «beffato dal destino al punto che mai, nella sua straordinaria carriera, aveva potuto prendere parte ai Giochi Olimpici. “Il più glorioso atleta italiano è morto per la Patria – Giuseppe Sinigaglia della Lario di Como campione del mondo di canottaggio”, scrive venerdì 18 agosto in prima pagina il quotidiano sportivo, dedicando un ampio articolo al ricordo delle imprese agonistiche e militari del grande campione, caduto ‘sul campo dell’onore’ ad appena 32 anni».
• «Di fatto, Sina (come lo chiamavano gli amici comaschi) aveva fatto grande l’Italia in quella che ancor oggi è la disciplina simbolo delle passioni sportive delle élites culturali inglesi, il canottaggio. Come? Conquistando proprio in Inghilterra il più prestigioso trofeo del mondo», la coppa d’oro della Diamond Sculls, consegnatagli personalmente dalla regina consorte Vittoria Mary di Teck (moglie di Giorgio V) dopo la vittoria in finale sull’inglese Collins Stuart, il 4 luglio 1914. «Tra i primi a congratularsi col comasco per lo straordinario successo sono proprio il padre e il fratello dell’inglese. Campione vero ed esempio di fair-play, Stuart, che come il suo rivale italiano verrà inghiottito dal gorgo della guerra».
• «A ricordarlo, ancor oggi che da quel maledetto pomeriggio d’agosto sono passati cent’anni, lo stadio di Como, viali, targhe, piazze, la Canottieri. Ma più di tutto un grido, un’invocazione, un rito: “Per Giuseppe Sinigaglia! Hop là, hop!”, gridano ancora oggi i canottieri della Lario, quando mettono in acqua il loro “otto”».
• Atleta italiano glorioso tanto nelle vesti di schermidore quanto in quelle di soldato fu Nedo Nadi, classe 1893, sottotenente di cavalleria nel reggimento Alessandria pluridecorato al valor militare. Un giorno, nell’autunno del 1918, Nadi aveva appena valorosamente conquistato un avamposto austriaco tra Bolzano e Trento costringendo alla resa i soldati asburgici, quando dalla colonna dei prigionieri si levò un grido: «Nedò, Nedò!». A pronunciarlo uno schermidore viennese, più volte leale avversario di Nadi prima del conflitto: «Nadi lo riconosce e lo abbraccia calorosamente, tra lo stupore dei soldati austriaci e dei cavalleggeri italiani. Poi l’italiano s’adopera perché quel prigioniero e i suoi commilitoni abbiano un trattamento dignitoso. (…) La notizia di quel caloroso saluto che ha lasciato tutti a bocca aperta si diffonde rapidamente; il campione-soldato viene convocato d’urgenza a rapporto dal colonnello. Forgiato dal severo padre Beppe a non arretrare in pedana di fronte a qualsiasi lama, figurarsi se Nedo lo fa davanti alla richiesta di spiegazioni del superiore: “Io sono soldato ma anche cristiano. Quell’ufficiale austriaco era compagno di sport e un amico. L’ho salutato come mi dettava la mia coscienza. Era prigioniero e lo è rimasto. Non ho commesso alcuna infrazione. Mi sono comportato umanamente. Tutto qui. Non ho niente da rimproverarmi”. Il colloquio si chiude con una stretta di mano. Il sottotenente Nadi può tornare dai suoi uomini». Il gesto gli sarebbe però costato la medaglia d’oro, cui era stato candidato in seguito a quella prode impresa.
• «Ancora da militare Nadi conquista le vittorie che pure segnano il ritorno alla vita sportiva: nel 1919, ai Giochi Pershing, le Olimpiadi interalleate militari, guida la spedizione italiana e conquista l’oro nel fioretto individuale (davanti a Piquemal e al fratello Aldo, argento anche nella sciabola individuale, dove Nedo non partecipa), e il titolo a squadre nella sciabola, superando Belgio e Francia. È il preludio al trionfo olimpico dell’anno successivo, ai Giochi “della rinascita”, ad Anversa: Nadi, alfiere azzurro nella cerimonia d’apertura, conquista cinque titoli (fioretto e sciabola individuale; fioretto, sciabola e spada a squadre, e manca il sesto solo perché non partecipa al torneo individuale di spada): il livornese entra nel mito».
• «Fu il Duce a volerlo commissario tecnico della Nazionale di scherma che a Berlino 1936 (mentre gli azzurri del calcio trionfavano guidati da quel Pozzo che, come Nadi, fu giornalista per La Stampa di Torino) dominò il medagliere con 4 ori, 3 argenti e 2 bronzi, e poi anche presidente federale. Ma di lì a poco, il 26 gennaio 1940, quando un’altra e ancor più atroce guerra era ormai alle porte, Nedo Nadi, vinto da un’emorragia celebrale, si spegne tra le braccia della sua amata Roma [Roma Ferralasco, la donna della sua vita – ndr]».
• «Salve ombrose valli / salve crode in fior / saluto a voi Tofane / un pensiero al primo amor. / Fuma il Castelletto / tuona il Masaré / su compagni, alzin le trombe / il nostro inno verso il ciel! / L’ultimo sguardo all’orizzonte / ove riposi o bel Cador / prega che i figli tuoi qui al fronte / sfidin la morte con onor» (Marcia alpina delle Tofane).
• A proposito della prima guerra mondiale, numerosi sono stati, nel corso dei decenni, i giudizi assai netti «nel condannare, innanzitutto, l’insensatezza di quella guerra. Si va da Papa Benedetto XV – che, a proposito del primo conflitto mondiale, ricorse all’immagine dell’“inutile strage” – allo storico tedesco Fritz Fischer – che vide in esso una “guerra delle illusioni” – per arrivare a Niall Ferguson che, più di recente, ha parlato del “più grande errore della storia moderna”».
• «Un popolo lo si manda o lo si tiene alla guerra con la forza o con i miti. Meglio con tutti e due. La tradizione militare (Cadorna) puntò sulla coercizione; gli interventisti democratici allegarono la buona coscienza dei loro miti democratici e palingenetici, parlando di disciplina e di persuasione; gli interventisti nazionalisti e i governi vollero la sintesi dei due elementi, forza e mito» (Mario Isnenghi, I vinti di Caporetto, Marsilio 1967).
• «Una dimostrazione di spirito sportivo consisteva nel calciare un pallone verso le linee nemiche al momento dell’attacco. Il primo a farlo fu il 1° battaglione del 18° London Regiment a Loos, nel 1915. Ben presto la trovata si trasformò in una bravata convenzionale e successivamente fu esportata su altri fronti» (Paul Fussel, La Grande Guerra e la memoria moderna, ed. orig. 1975, trad. it. Il Mulino 1984).
• «Lo sport del calcio, insomma, come ha anche scritto il giornalista Michael Jürgs, era preso sul serio. Era talmente sentito da venir praticato perfino nella “terra di nessuno”. Queste le modalità davvero straordinarie in cui si svolgeva: “Come pali per le porte vengono utilizzati un paio di bastoni di legno, oppure berretti ed elmetti chiodati. I palloni spuntano fuori sempre dalla stessa parte. Quella dei britannici. (…) Dove non c’è un pallone a disposizione, si usa un po’ di paglia schiacciata ben bene e legata con il filo spinato, disponibile in abbondanza. E quando non basta neppure questo, bisogna accontentarsi di un barattolo di conserva vuoto. Corrono dietro ai loro strani palloni come bambini. Incitati da quelli che sono seduti ad assistere alla partita dalle tribune, i loro parapetti”».
• I meno “sportivi” della guerra si rivelarono senza dubbio i tedeschi, i quali, rompendo irrevocabilmente la tradizione bellica con il ricorso «al gas di cloro – sperimentato per la prima volta proprio contro gli inglesi, ad Ypres, il 22 aprile 1915 – avrebbero scritto una pagina di storia del tutto nuova. Ha osservato a tale proposito Reginald Grant: “Fu un nuovo espediente nella condotta della guerra, e chiarisce perfettamente quale idea abbiano i prussiani del gioco leale”».
Notizie tratte da: Dario Ricci, Daniele Nardi, La migliore gioventù. Vita, trincee e morte degli sportivi italiani nella Grande Guerra, Infinito 2015, pp. 204, 14 euro.