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 2015  giugno 09 Martedì calendario

Il poeta suicidato

Il 14 aprile 1930 Valdimir Majakovskij viene ucciso da un colpo di pistola al cuore. Nella sua nudità, quest’unico dato consente a Serena Vitale, fra le massime interpreti della cultura russa, di dipanare una quantità di fili narrativi – fili di seta e filo spinato. Uno stupefacente numero di spunti, aneddoti, illustrazioni, alfabeti si squaderna nel volume Il defunto odiava i pettegolezzi (Adelphi, pagg. 284, euro 19), concluso, non per nulla, da un canto popolare georgiano con testo a fronte. Perché georgiano era Majakovskij e georgiano Stalin, sotto il cui regime quest’autore ingombrante, arrogante, rozzo, “vestito in modo abominevole” si spense, lasciando una lettera in cui invitava appunto a non fare pettegolezzi sulla sua morte.
Per quanto il tema sia dunque tanto circoscritto, il testo cresce su di sé ricostruendo con entusiasmo e insieme acribia, sia la vita culturale sia la morte burocratica, sia le trasformazioni sociali sia le disillusioni rivoluzionarie. Ogni testimonianza è vagliata con la cura che richiede quanto la stessa Vitale definì il paradosso delle quattro filologie: germanica, slava, romanza e “romanzesca”, ossia quella dell’Urss negli anni Trenta, fatta di manoscritti sottratti alla polizia, nascosti fra le pentole, riposti nelle scarpe o imparati a memoria, come nel fantascientifico Fahrenheit 451 (scritto da Ray Bradbury e girato da François Truffaut). Ma oltre che ad un simile modello, il libro fa pensare all’intervento che nel 1947 Antonin Artaud dedicò a Van Gogh, il suicidato della società. Ebbene, pur nella loro assoluta differenza, questi due testi “psico-culturali” potrebbero saldarsi in un solo titolo: Majakovskij il suicidato della società.
Che si trattasse di suicidio d’amore o di omicidio politico, alla fin fine non importa. Certo è che questo uomo spaventosamente fuori dal comune, fuori misura e fuori formato, un gigante alto più di un metro e novanta schernito come “figlio di Polifemo”, fu immolato al potere staliniano. Come osservò Sergej Eizenstejn, «bisognava farlo fuori. E lo hanno fatto fuori… Uccidere una persona con le sue stesse mani, è la più terribile forma di omicidio, sacrilega e crudele». Vediamo, comunque, in che modo è stata composta la sua “necrografia” (che pure ha tutta la forza delle migliori biografie).
La menzione di un regista quale Eizenstejn non è casuale, in quanto questo libro rappresenta innanzitutto un ammirevole esempio di montaggio. Montaggio di testimonianze, si è già detto, ma anche di immagini (disegni, scarabocchi, fotografie), nonché di prose e versi. Abbiamo insomma una narrazione inquieta e ibrida, che accumula ritagli, citazioni o brani di giornale, senza dimenticare mappe catastali e pubblicità di armi da fuoco. Il tutto, in certo modo, nel segno di un altro tragico titolo, questa volta del grande linguista Roman Jakobson: Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Dirà infatti il suo autore: «Quando i cantori sono uccisi, e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione, nullatenente nel più autentico senso della parola».
Eppure, oltre a tutto ciò, Il defunto odiava i pettegolezzi contiene ancora molto altro (sebbene manchi un indice dei nomi…), a cominciare dagli atroci ritratti di due assassini di Stato come Ezov e Agranov. Per finire, però, meglio ricordare gli aforismi taglienti, travolgenti e vitali che tanto bene testimoniano l’empito pan-adolescenziale di Majakovskij: «Ma hai smesso completamente di studiare il francese! – Non urlare, mi spaventi. Il francese mi matura in bocca da solo come una spiga di grano». Meglio rileggere una descrizione del poeta come esibizionista da giardinetti pubblici: «All’improvviso spalanca l’impermeabile e mostra l’anima a nudo». E meglio ancora, infine, affidarci a quei versi che giocano, raggianti, con l’idea del suicidio: «Io / ammazzarmi? / Dai, siamo seri… / Batti moneta di gioia sfavillante, cuore!».