La Stampa, 23 luglio 2015
L’ultima possibilità per il risanamento dell’Ilva passa dai magistrati in Italia e Svizzera. Il ricorso a Bellinzona delle figlie di Riva blocca 1,2 miliardi per il gruppo
Non c’è solo la procura di Taranto sulla strada accidentata dell’Ilva. I commissari straordinari attendono con ansia – e con qualche preoccupazione – pure le decisioni del Tribunale federale di Bellinzona.
Anche da quella pronuncia e dai tempi in cui verrà stabilita, infatti, dipende il destino del colosso siderurgico. Di fronte alla corte svizzera pende un ricorso presentato dalle due figlie del defunto Emilio Riva per bloccare il trasferimento di 1,2 miliardi di euro il cui sequestro era stato chiesto dalla procura di Milano ed autorizzato da quella elvetica. Si tratta di soldi destinati a rientrare nella disponibilità della stessa azienda siderurgica e che anzi sono essenziali perché l’Ilva possa attuare il suo piano di risanamento ambientale e in sostanza perché possa sopravvivere. Se quella somma dovesse restare bloccata in Svizzera o se dovesse arrivare troppo tardi l’intero progetto di risanamento messo in piedi dall’azienda rischierebbe di fallire e la stessa Ilva sarebbe destinata alla chiusura.
Con un’altra conseguenza paradossale, oltre a quella scontata della perdita della prima acciaieria italiana e seconda in Europa: parte dei fondi che l’Ilva ha già ottenuto e tutti quelli che deve ancora ottenere dal sequestro dei soldi dei Riva sono finalizzati proprio al risanamento in regime di continuità aziendale. Se gli altoforni dovessero chiudere, dunque, i fondi per le bonifiche ambientali – che resterebbero necessarie – andrebbero trovati in un altro modo.
Finora l’Ilva ha raccolto poco meno di un terzo degli 1,8 miliardi necessari al piano: 400 milioni le sono arrivati dalla Cdp, Intesa-Sanpaolo e Banco Popolare, mentre altri 150 milioni sono il frutto di una transazione con Fintecna. La somma sequestrata agli eredi Riva completerebbe il puzzle dei finanziamenti necessari. Ma il problema, per l’appunto, non è solo se questi soldi arriveranno, ma quando arriveranno. Da marzo l’Ilva funziona solo con i due altiforni più piccoli dei cinque che ha a disposizione. L’altoforno 5 è stato spento per effettuare il cosiddetto “rewamping”, il rinnovo integrale dell’impianto, mentre l’altoforno 1 potrà essere di nuovo operativo in agosto.
E proprio il fatto che lo stabilimento funzioni «a scartamento ridotto» fa sì che in questi mesi l’attività dell’Ilva invece di generare cassa ne stia assorbendo: ogni giorno di funzionamento dell’impianto costa più di quel che rende, anche se i commissari cercano di far fronte alla situazione vendendo le scorte che hanno.
Le conseguenze? Nelle previsioni del management si potrà andare avanti in queste condizioni fino a ottobre-novembre, quando secondo i progetti dovrà nascere la «nuova» Ilva, risanata, nella quale potrebbe poi entrare anche la Cassa Depositi e Prestiti attraverso il suo fondo per le imprese.
Dunque per la decisione del Tribunale svizzero, a Taranto sperano ovviamente positiva nei confronti dell’azienda, c’è un tempo limitato. Se arrivasse prima di metà agosto i problemi sarebbero ridotti, mentre un ritardo maggiore significherebbe una situazione via via sempre più complicata.
Insomma, il percorso verso un possibile risanamento dell’Ilva, legato anche al mantenimento in vita degli impianti, pare sempre più un percorso ad ostacoli. La gestione attuale vede adesso una magistratura attivissima, dopo che per decenni poco era stato fatto dall’azienda senza causare particolari reazioni.
E se dovesse andare in porto lo spegnimento dell’altoforno 2, chiesto dalla Procura di Taranto, la missione di salvare il sito produttivo diventerebbe quasi impossibile.
Certo, tra la possibilità di «affittare» un’Ilva in via di risanamento, come prevede la legge, e trovare un acquirente – con ogni probabilità straniero – pronto a farsi carico di un impianto fermo e di tutte le necessarie spese di bonifica ce ne corre.
E certo sarebbe difficile anche spiegare che l’Italia possa perdere un patrimonio – in termini di competenze, occupazione e fatturato – per una battaglia a colpi di decreti legge e ricorsi d’urgenza tra i poteri di uno stesso Stato.