Un libro in gocce, 23 luglio 2015
Vita di Al Capone
Proibizionismo. La legge nazionale sul proibizionismo, meglio conosciuta come la Legge Volstead, dal nome del rappresentante repubblicano del Minnesota che l’aveva introdotta alla Camera, entrò in vigore alle ore 12.01 del giorno 17 gennaio 1920. Volstead era fermamente convinto che «la legge regola la moralità, ha regolato la moralità sin dal tempo dei Dieci Comandamenti». La prima violazione di questa legge venne registrata a Chicago esattamente cinquantacinque minuti dopo la mezzanotte.
Carcere. Per far passare il tempo Capone svolgeva le funzioni di archivista della biblioteca. Capone legge la vita di Napoleone: “Devo riconoscere che Napoleone è stato il più grande racketeer del mondo, ma io avrei potuto dargli dei consigli su alcune cose. Il guaio è che si era montato la testa. Si è lasciato prendere la mano e gli altri ne hanno approfittato. Avrebbe dovuto avere abbastanza buon senso per ritirarsi dopo il colpo dell’Elba. Ma anche lui era come tutti noi. Non capiva quando era il momento di piantarla e tornare al racket. Così si è cacciato nei guai, facilitando il compito delle altre bande che dopotutto non erano stupide. Se fosse vissuto a Chicago, per lui ci sarebbe stata una Waterloo con i fucili a canna mozza. Non è finito in un fossato come un certo coroner, ma gli hanno fatto fare un viaggio senza ritorno fino a Sant’Elena, che era circa la stessa cosa”.
Avrebbe dovuto lasciare la prigione il 17 marzo 1930, ma in gran segreto lo rilasciarono un giorno prima di modo che al momento della scarcerazione, resa nota al pubblico, si trovasse già a circa 300 chilometri di distanza, diretto verso Chicago.
Libertà. Capone per quattro giorni non si fidò a recarsi in Prairie Avenue. Passò la sua prima notte di libertà nascosto in un albergo di Cicero, il Western, ubriacandosi sfrenatamente. Anche Capone risentì della grande crisi. Nel ’29 il suo reddito aveva superato di poco i 100 mila dollari. Solo l’anno prima il fisco aveva accertato il doppio.
Tra i “nemici pubblici” nell’elenco del 1923 primo fra tutti era “Alphonse Capone, alias Scarface Capone, alias Al Brown”. Dietro di lui venivano una sua guardia del corpo, Tony Volpe, detto “Smorfia”, e Ralph Capone al terzo posto.
La moglie. “Il pubblico ha un’idea di mio marito” disse Mae Capone molti anni dopo, rifiutando i 50.000 dollari che un editore le offriva per pubblicare la storia della sua vita con Capone, anche se in quel momento era a corto di denaro. “Io ne ho un’altra. Conserverò questo ricordo e lo amerò sempre”.
La palla medica. Il presidente Hoover amava iniziare la sua giornata con qualche leggero esercizio sportivo. Prima di colazione incontrava i membri del suo gabinetto sul prato della Casa Bianca, accanto all’albero di magnolia che Andrew Jackson aveva piantato in memoria della moglie e, mentre discuteva gli affari di stato, lanciava in aria una palla medica. Al Capone fu una delle preoccupazioni più pressanti durante le prime settimane della sua amministrazione.
L’evasore fiscale. I due principali aspetti delle attività di Capone che erano caduti nel campo visivo federale erano il contrabbando degli alcolici e l’evasione fiscale. In tutta la sua vita Capone non aveva mai compilato una dichiarazione dei redditi.
Il gruppo di Ness (Ness era un ventiseienne diplomato all’università di Chicago) aveva raccolto prove sufficienti per incriminare Al Capone e molti dei suoi aiutanti per violazione della Legge Volstead.
Il fratello Ralph. Il primo ad essere arrestato per evasione fiscale fu il fratello Ralph. Ralph Capone fu condannato a tre anni di detenzione, dopo aver pagato una cauzione di 35 mila dollari e una multa di 10 mila dollari. Al non riusciva a capire. Era inconcepibile per lui che dopo anni di violenze e di assassinii impuniti, un individuo potesse incorrere in una sanzione penale soltanto per essersi rifiutato di pagare le tasse al governo. I suoi avvocati lo avevano avvertito delle decisioni prese nel caso Sullivan, ma Capone non aveva afferrato bene il concetto, perché una sera, durante il pranzo con alcuni compari, pare abbia detto: “La legge fiscale è tutta una balla. Il governo non può pretendere di imporre tasse legali su redditi illegali”. E anche se i suoi avvocati lo avevano consigliato di versare spontaneamente la somma dovuta prima che iniziassero le indagini, Capone aveva sempre ignorato il loro consiglio.
Profumo di mughetto. Malone e Sullivan avevano fornito moltissimo materiale a Wilson. Quando Capone diede un ricevimento al Lexington per il compleanno di Frank Nitti, invitò Lepito-Malone che in questo modo riuscì a osservare la banda più da vicino e in un momento di distensione.
“Piacere di vedervi, signor Capone” disse Wilson. Capone tese la mano, ma Wilson finse di non vederla. Dal taschino della giacca Capone tolse un fazzolettino di seta e si asciugò la bocca. Wilson fu sommerso da una zaffata di profumo di mughetto.
L’arresto per vagabondaggio. Date le continue pressioni da parte di personalità influenti che andavano a svernare in Florida e che non desideravano avere dei gangster come vicini – Albert D. Lasker, per esempio, il magnate della pubblicità, John D. Hertz, fondatore della Compagnia di taxi, James M. Cox, ex governatore dell’Ohio e editore di diversi giornali, tra cui il “Daily News” di Chicago – la polizia continuò a tormentare Capone e i suoi ospiti.
Durante il mese di maggio arrestarono quattro volte Capone per “vagabondaggio”.
Il 9 giugno Capone ricevette da Chicago notizie dolorose sul suo amico Juke Lingle.
L’epigrafe di Sandburg. In prosa, Sandburg ha pubblicato alcuni volumi di narrativa e una monumentale biografia di Abraham Lincoln in sei volumi, dal 1926 al 1939.
Un giorno faranno la guerra e nessuno ci andrà. Carl August Sandburg (1878 – 1967), poeta, storico e scrittore statunitense scelto da Kobler e messo in calce quale epigrafe alla sua biografia su Al Capone:
Piedipiatti, sbirri, funzionari, gli altri papaveri
In vetrina, non sono forse tutti in torta?
Non è un mangia-mangia su tutta la linea?
Snorky Tra i nemici pubblici di Frank Loesch, membro fondatore della Commissione per il crimine di Chicago, Al Capone era in cima alla classifica. “Dopo la mia nomina a presidente della Commissione non mi ci volle molto per scoprire che Capone comandava la città. Le sue mani arrivavano in ogni dipartimento, in ogni amministrazione di contea”.
Al tempo della visita di Loesch, Capone aveva ventinove anni.
Al Lexington Hote Al Capone si comportava come se ne fosse il proprietario. Quando ricevette Losech sedeva tranquillo e sorridente dietro una lunga scrivania di mogano, con la schiena rivolta al bovindo e un sigaro tra i denti. Sulla scrivania oltre al telefono c’erano un calamaio placcato d’oro, un branco di elefantini di avorio (suoi portafortuna), un binocolo con il quale amava scorrere i titoli dei giornali appesi all’edicola all’angolo della strada, e un fermacarte di bronzo che riproduceva il monumento a Lincoln.
Loesch si stupi’ nel vedere appese alla parete di stucco rosa, i ritratti di Abramo Lincoln, di George Washington e del sindaco di Chicago, William Hale Thompson, detto Big Bill, il Grosso Bill. Accanto al ritratto di Lincoln era appesa una riproduzione del Gettysburg Address. Sulla parete opposta vi era un ritratto di Cleopatra, fotografie di Fatty Arbuckle e Theda Bara, le stelle del cinema preferite da Capone, tre teste di cervo imbalsamate ed un orologio con il cucu’ che suonava le ore e una quaglia che suonava i quarti.
Nella stanza si muovevano una mezza dozzina di scudieri, attenti al piu’ piccolo desiderio del loro capo. Quando il sigaro che aveva in bocca si spegneva, Capone non aveva bisogno ne’ di parlare, ne’ di accennare un gesto per farselo riaccendere, perche’ automaticamente qualcuno balzava al suo fianco e faceva scattare l’accendino. Loesch imposto’ subito il suo problema senza preamboli. Ricordo’ a Capone le elezioni primarie repubblicane dell’aprile. Nel linguaggio dei gangsters, una bomba era un’ananas ed i giornali avevano soprannominato queste elezioni “le primarie dell’ananas”. Terroristi di professione, di entrambe le parti, la maggioranza dei quali erano gangsters di Capone, avevano lanciato bombe nelle case dei candidati, ucciso lavoratori di partito e minacciato gli elettori. La polizia non era intervenuta. Tutto questo era forse un anticipo di quello che sarebbe successo nelle prossime elezioni di novembre? L’arroganza della risposta di Capone sconcerto’ il vecchio avvocato. “Vi trattero’ con equanimita’, se non chiederete troppo”.
"Sentite Capone” disse Loesch, reprimendo la collera, “volete darmi una mano ed impedire ai vostri teppisti ed ai vostri sicari di interferire nei seggi elettorali?”.
"Certo” promise Capone. “con loro posso farlo, basta la mia parola, perche’ sono tutti dagos (italiani), ma come la mettiamo con la banda degli irlandesi di Saltis nella zona Ovest? Costoro devono essere trattati in maniera diversa. Volete che mi occupi anche di questo?"
Loesch rispose che nulla gli avrebbe fatto piu’ piacere.
"D’accordo” fece Capone. “La sera prima delle elezioni manderò nella zona le macchine della polizia ad arrestare tutti i teppisti ed a tenerli al fresco fino alla chiusura dei seggi”.
E mantenne la parola. Disse alla polizia della seconda città d’America quello che avrebbe dovuto fare e la polizia obbedì. Alla vigilia delle elezioni la polizia fece una retata ed arrestò e disarmò molti noti gangster. Il giorno seguente settanta macchine della polizia pattugliarono i seggi. Lo scrutinio si svolse senza disordini.
"In quarant’anni mai si erano verificate elezioni tanto oneste e meglio riuscite” commentò in seguito Loesch durante una conferenza all’Accademia di criminologia della California del Sud. “Per tutto il giorno non ci fu una sola protesta, una minaccia, od il tentativo di una frode elettorale”.
Era la dimostrazione di un potere che ben pochi fuorilegge erano riusciti a raggiungere prima e dopo di lui.
Il centro nevralgico delle molteplici attività di Capone era la stanza 430, il salone del suo appartamento di sei locali. Da qui egli dirigeva, con la guida del suo direttore finanziario di origine moscovita e dall’aspetto porcino, Jake Guzik, detto Greasy Thumb ovvero Pollice Unto, un consorzio che possedeva o controllava fabbriche di birra, distillerie, bettole illegali, magazzini, flotte di imbarcazioni e autocarri, night-club, bische, piste da corsa per cavalli e cani, case di appuntamento, sindacati, associazioni industriali e commerciali; attività che tutte insieme producevano un reddito annuo di centinaia di milioni di dollari. Il denaro veniva ammassato in borse di tela chiuse con il lucchetto e sistemate nella stanza 430, in attesa di trasferimento in qualche banca sotto nomi fittizi.
L’abbigliamento. Al Capone non era un tipo mattiniero. Chi si recava da lui prima di mezzogiorno, lo trovava in vestaglia e pigiama di seta che, come le lenzuola di seta in cui dormiva, portavano il suo monogramma. Ordinava questi pigiami, “modello francese”, da Sulka, a dodici per volta e al prezzo di 25 dollari ciascuno. Amava soprattutto quelli blu reale con profili d’oro. Prediligeva anche le mutande colorate di maglia di seta italiana che costavano 12 dollari. I suoi abiti, confezionati su misura da Marshall Field al prezzo di 135 dollari l’uno, con le tasche di destra rinforzate per reggere il peso di una rivoltella, avevano tonalità di colore pacate – verde pisello, turchino, giallo limone.
Sul fermacravatta scintillava un enorme diamante, lungo l’addome adiposo correva una catena da orologio di platino incastonata con diamanti e al dito medio portava un diamante purissimo da 11 carati, bianco azzurro, che gli era costato 50.000 dollari.
L’aspetto fisico. Al Capone a ventinove anni era alto circa un metro e 78 centimetri e pesava circa centoquindici chili. Le spalle erano carnose e incurvate, come quelle di un toro. Aveva capelli castano scuro, occhi grigio chiaro sotto folte sopracciglia irsute, il naso piatto, la bocca larga e le labbra carnose e porporine.
Portava tre cicatrici sul volto che gli valsero il soprannome di Scarface ovvero lo Sfregiato, ma nessuno osava pronunciarlo in sua presenza. Gli intimi potevano chiamarlo Snorky, che in gergo significava “elegante”.
La vendetta. Raramente tre ospiti d’onore si erano seduti ad un banchetto tanto munifico. I loro cupi visi siciliani si congestionavano sempre di più via via che ingozzavano cibi raffinati e piccanti, annaffiati con litri di vino rosso. A capotavola Capone distribuiva larghi e smaglianti sorrisi trasudando affabilità, e proponeva un brindisi dopo l’altro ai suoi ospiti. Saluto Scalise! Saluto Anselmi! Saluto Giunta!
Per questa occasione, l’Hawthorne Inn, che a tutti gli effetti pratici era di proprietà di Capone, come lo era del resto la circostante cittadina di Cicero, era stata chiusa al pubblico, le porte bloccate, le tende tirate. La festa era strettamente intima. L’atmosfera della sala trasudava di esuberanti sentimenti di amicizia, di canzoni, grida barzellette e risate.
Infine, passata ormai da tempo la mezzanotte, quando l’ultimo boccone era stato divorato e l’ultimo goccio bevuto, Capone di scatto spinse indietro la sedia. Il suo sorriso era svanito. Un silenzio glaciale piombò nella stanza. Nessuno sorrideva più, tranne gli ospiti d’onore che, sazi, alticci, avevano slacciato le cinture e cravatte per via della pantagruelica quantità di cibi e bevande ingerite.
Ma poiché il silenzio perdurava, anche loro cessarono di sorridere. Cominciarono a guardarsi attorno nervosamente. Capone si chinò verso di loro. Le parole uscirono dalla sua bocca come pietre. Pensavano forse che lui non sapesse? Immaginavano forse che potesse dimenticare quell’offesa che non aveva mai perdonato a nessuno...il tradimento?
Capone aveva rispettato l’antica tradizione. Prima l’ospitalità poi l’esecuzione. I siciliani non avevano possibilità di difendersi perchè, come del resto tutti gli altri commensali, avevano depositato le rivoltelle al guardaroba. Le guardie del corpo di Capone piombarono su di loro, li legarono alle sedie con del filo metallico e li imbavagliarono. Capone si alzò, aveva in mano una mazza da baseball. Lentamente percorse tutta la lunghezza del tavolo e si fermò alle spalle del primo ospite. Con entrambe le mani sollevò la mazza e la calò con tutta la sua forza. Con lentezza metodica continuò a colpire sulle spalle, sulle braccia, sul petto. Poi fu la volta del secondo ospite e, quando anche costui fu ridotto a brandelli, passò al terzo.
Infine una delle guardie del corpo andò nel guardaroba a prendere la rivoltella e sparò alla nuca dei tre siciliani.
L’infanzia a Brooklyn
Il 26 maggio del 1906 Gabriel Capone, un quarantunenne barbiere di origine napoletana, comparve dinnanzi alla Kings County Court a Brooklyn, New York, per richiedere i documenti definitivi per la cittadinanza. Non sapeva parlare, né scrivere o leggere l’inglese, ma la nuova legge che poneva tutto ciò quale condizione per la naturalizzazione sarebbe entrata in vigore soltanto un mese dopo e così egli potè lasciare il palazzo di giustizia come cittadino americano: una condizione che, in base alla legge di allora, automaticamente veniva conferita anche alla moglie e ai figli.
Capone, con la moglie Teresa, nata Riolia, a quel tempo incinta di otto mesi, e il loro primo figlio di sei anni, Vincenzo, era emigrato nel 1893 dai bassifondi di Napoli agli slums del distretto.
La corruzione. «C’è qualcosa di peggio di un criminale ed è un uomo disonesto implicato in un gioco politico, un individuo che finge di applicare la legge e in realtà si fa pagare da qualcuno che la trasgredisce; un delinquente con un minimo di dignità non sa che farsene di individui del genere. Li compra come compra qualsiasi altro articolo necessario al suo commercio, ma li odia con tutto il cuore.»
L’indagine. Nel 1930 la Scuola di giornalismo Medill di Chicago svolse una indagine tra i suoi studenti con lo scopo di stabilire quali erano considerati i “più eminenti personaggi del mondo… le personalità che hanno fatto la storia” negli ultimi dieci anni. La maggioranza dei voti andarono a Benito Mussolini, al colonnello Charles A. Lindbergh, all’ammiraglio Richard E. Byrd, a George Bernard Shaw, a Bobby Jones, al presidente Hoover, al mahatma Gandhi, ad Albert Einstein, a Henry Ford e ad Al Capone.
Capone visto da Al. «Sono un benefattore pubblico… Non si può guarire la sete con la legge. Mi chiamano contrabbandiere. Sì. La mia è merce di contrabbando finché è sui camion, ma quando il vostro ospite ve la porge su un piatto d’argento al club, nelle palestre o nei saloni della “costa dorata”, allora è opitalità. E dunque, che cosa ha fatto Al? Non ha fatto che soddisfare delle richieste legittime. Alcuni lo chiamano contrabbando, altri racket. Io li chiamo affari. Dicono che ho violato la legge sul proibizionismo. E chi non lo ha fatto?».
Vita mondana. All’ippodromo di Charlestown, nell’Indiana: le migliaia di persone presenti salutavano Capone quando appariva con la sua guardia del corpo e lui rispondeva al saluto con le mani unite sopra la testa, come fa un pugile quando sale sul ring.
Capone raggiante in abito giallo e cravatta di uguale colore, prendeva posto e gruppi di appassionati alle corse si accalcavano attorno a lui per stringergli la mano. Capone aveva un palco riservato per sé, per la famiglia e gli ospiti, e un altro palco, adiacente, per le guardie del corpo.
Capone visto dagli altri. Era generoso Capone, si dava sempre da fare per aiutare i poveri, soprattutto nei momenti di grande crisi, tanto che il fratello Ralph disse: «Mio fratello nutre tremila disoccupati al giorno». Per il Thanksgiving Day, Capone aveva donato cinquemila tacchini. Durante le festività, una donna si era inginocchiata davanti a lui e gli aveva baciato la mano.
Curiosità. La Hawthorne Inn divenne una meta degli autobus turistici che facevano il giro di Chicago e dei suoi dintorni. «Il castello di Capone» esclamava la guida nel suo microfono.
Il fascino ammaliante di Al. Dal 1929 al 1931 furono pubblicati diversi libri dedicati interamente o parzialmente a Capone. Il primo della serie fu Rattling the Cop on Chicago Crime, di Edward Dean Sullivan. Le edizioni Fawcett pubblicarono un numero unico, largamente illustrato, al prezzo di 50 cent, e fu la prima pubblicazione di questo genere che in seguito inondò tutte le edicole. Il titolo di pagina riportava uno degli anatemi del giudice Lyle: «Se ci sarà possibile, manderemo Capone alla sedia elettrica!» e l’autore anonimo attribuiva la maggior parte dei delitti, elencati nel testo, a Capone, anche se in molti casi non c’era alcun nesso.
Occhi freddi e glaciali. Pochi intervistatori trovarono Capone più affascinante e più attraente di Eleanor Patterson, detta “Cissy”, direttrice e poi proprietaria dell’“Herald” di Washington. «Guardare negli occhi di Capone è come guardare in quelli di una tigre…».
Come l’inviato francese Georges London la Patterson rimase impressionata dalle mani di Capone. «Enormi, forti abbastanza per afferrare… be’ quasi tutto, ma in superficie morbide, lisce, candide».
Notizie tratte da: John Kobler, Al Capone: la vita e il mondo del re dei gangster, Mondadori 2004