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 2015  luglio 23 Giovedì calendario

La situazione dei quattro italiani rapiti in Libia è complicata dalla questione dei sette scafisti catturati negli ultimi dieci giorni dalle autorità italiane. Il punto è capire quanto le autorità di Tripoli siano in grado di controllare il racket degli scafisti e costringerli a liberare i nostri connazionali senza precise contropartite da Roma. Del resto, la politica dei rapimenti a scopo di lucro o per rappresaglia fa parte del pane quotidiano nel caos che attanaglia il Paese. Intanto Denis Morrison, responsabile per la logistica della Bonatti, spiega perché ha preferito farli viaggiare in auto anziché in barca: «Un errore clamoroso»

Più passa il tempo e più la vicenda dei quattro italiani rapiti si ingarbuglia con l’intricato mosaico del caos interno libico. Prima di provare a spiegarlo, vediamo di capire cosa dicono i colleghi e amici dei quattro connazionali direttamente agli impianti di Mellitah raggiunti ieri per telefono da Tripoli. C’è infatti una domanda fondamentale che tanti tra i dipendenti locali della Bonatti e dell’Eni si pongono tutt’ora: come mai i quattro non hanno preso la barca da Gerba, come in genere fanno tutti i dipendenti stranieri per raggiungere il terminale in Libia, e invece hanno scelto di arrivare via terra in auto? «È stata una pura follia, un errore clamoroso! Circa una settimana fa i libici della sicurezza che lavorano per la Bonatti avevano detto a Dennis Morson, l’italiano responsabile della logistica, che occorreva utilizzare la barca dalla Tunisia come sempre. C’era stato uno scambio d’opinioni abbastanza acceso. Ma lui ha scelto eccezionalmente di mandare un autista e li ha fatti viaggiare di sera. Da Gerba sono necessarie almeno quattro ore di viaggio, il rapimento è avvenuto verso le venti. Un’ora troppo rischiosa per viaggiare da queste parti. Adesso chiede scusa a tutti, ma è troppo tardi», dicono in tarda mattinata gli impiegati locali, chiedendo di non rivelare i loro nomi, «altrimenti rischiamo il posto».
Dennis Morson alle sedici accetta di dare la sua versione. Va subito detto che non è un pivellino. Ha 57 anni, è nato in Canada da genitori italiani, con loro tornato a 6 anni a Pordenone, inconfondibile accento friulano. «Dal 1981 lavoro in Libia e per 34 anni sono stato dipendente della Bonatti», precisa. Della scelta di usare l’auto al posto della barca non vuole dire. Però specifica: «Posso spiegare in tutta tranquillità che la situazione qui nella Libia occidentale negli ultimi due mesi e mezzo si era fatta molto più calma. Non mi è sembrato un azzardo farli arrivare con un nostro autista. Sono quattro persone di grande esperienza che da molto tempo lavorano con noi. Spero adesso che la crisi si risolva rapidamente. Ci sono i servizi italiani sul posto e le autorità locali si danno da fare. Siamo in contatto con tutti gli amici qui attorno. Speriamo bene».
Vista da Tripoli, però, la situazione appare molto più complicata. Per i 138 membri del Congresso Generale Nazionale (Gnc), l’organismo di governo dominato dalle liste islamiche che si scontra direttamente con il parlamento di Tobruk, il rapimento degli italiani può diventare un’occasione per rilanciare la loro statura internazionale e addirittura il dialogo con Roma. «Perché il governo italiano non parla con noi, invece di preferire i rapporti con Tobruk?», esclama subito Mohammad Abu Sidra, uno dei leader più noti del Fronte islamico. Lui e un altro deputato, Ismahil Al Aib Gharian, non lesinano parole per condannare il rapimento. «Stiamo facendo di tutto per il rilascio degli italiani. Da noi ogni straniero è sacro. Abbiamo i nostri uomini sul posto. Sappiamo dove sono stati portati e crediamo di conoscere i rapitori. Gli italiani potrebbero venire liberati presto. Magari è solo una questione di poche ore», dicono all’unisono.
Il loro messaggio è però molto più politico. Nasce dal risentimento contro la diplomazia italiana, che accusano di aver abbandonato l’equidistanza tra i due governi in Libia per sostenere invece le proposte per un governo di unità nazionale sostenute dall’inviato dell’Onu, Bernardino León. «A Roma devono capire che l’Alta Corte di Tripoli, il massimo organismo giuridico libico, a novembre ha dichiarato illegale il parlamento di Tobruk. León fa male a ignorarla e così anche l’Italia. Noi siamo disposti a superare l’impasse indicendo elezioni anticipate entro la fine dell’anno. Ma ogni dialogo costruttivo necessita che venga rispettata una condizione fondamentale: il capo militare di Tobruk, il generale Khalifa Haftar, deve essere dimesso. Non è un militare, ma un criminale, un terrorista, un ex uomo di Gheddafi con le mani sporche di sangue», spiegano inflessibili. Siamo partiti dalla vicenda dei quattro rapiti, ma rapidamente vengono a galla le questioni irrisolte che lacerano la Libia. «Haftar e i politici di Tobruk si presentano a voi occidentali come i paladini della lotta contro l’Isis in Libia. In verità siamo noi, i legittimi partiti islamici libici, i veri nemici dell’Isis e di Al Qaeda. Noi combattiamo l’Isis, le nostre milizie si dissanguano per fermare le sue colonne nel sud, tra Sirte e Misurata. E intanto Haftar, con il sostegno egiziano, attacca i nostri uomini, senza alzare un dito contro Isis», spiegano.
La polemica è rinfocolata nel pomeriggio. Da Tobruk lo stesso Haftar posta su Facebook, all’indirizzo «Comando Generale delle Forze Armate», un breve messaggio in cui accusa le milizie di Zuwarah (la città presso Mellitah dove gli italiani sono stati rapiti) di essere alleate ad «Alba della Libia» (la milizia che raccoglie gli armati pro-Tripoli) e di aver «preso gli italiani per scambiarli con gli scafisti libici e fare pressioni sull’Italia». Il messaggio manda letteralmente in bestia i politici di Tripoli. «Non possono esiste soluzione politica se prima Haftar non se ne va. Anzi, deve essere processato e condannato per crimini di guerra e delitti contro l’umanità. A Roma devono capire che noi abbiamo tutte le intenzioni di collaborare con l’Italia. Assieme possiamo trovare il modo per bloccare l’arrivo degli immigranti illegali. Scordatevi soluzioni unilaterali, tipo quella di bombardare le barche degli scafisti sulle nostre spiagge. È pura follia, avventurismo senza senso, pericoloso e controproducente. Serve solo ad alimentare gli estremismi. Dobbiamo piuttosto lavorare insieme. Abbiamo bisogno del vostro aiuto, ci mancano i mezzi e le armi necessarie», aggiunge Abu Sidra.
Una versione più articolata dello sforzo di Tripoli per cercare di liberare gli italiani arriva però da Naima Mohammad, una nota esponente del Congresso di Tripoli che nel passato si è spesa per migliorare lo status delle donne nel Paese. «La situazione degli italiani è complicata dalla questione dei sette scafisti catturati negli ultimi dieci giorni dalle autorità italiane. Pare possibile che i rapitori chiedano ora la liberazione degli scafisti prima di rilasciare i vostri quattro connazionali», spiega. In serata fonti locali specificavano che i rapitori sarebbero legati agli scafisti, tutti residenti tra Zuwarah e Sabratah, forse residenti nelle stesse zone. Il punto è capire quanto le autorità di Tripoli siano in grado di controllare il racket degli scafisti e costringerli a liberare gli italiani senza precise contropartite da Roma. Del resto c’è poco di strano nella politica dei rapimenti a scopo di lucro o per rappresaglia. Fa parte del pane quotidiano nel caos che attanaglia il Paese. Circa un mese fa l’ambasciatore ucraino venne rapito per 48 ore sulla stessa strada verso il confine tunisino attorno a Mellitah. In maggio i miliziani di «Alba della Libia» rapirono 200 tunisini residenti nella zona della capitale per ottenere la liberazione a Tunisi di Walid Lachtib, uno dei loro leader trattenuto su mandato dell’Interpol. E nell’aprile 2014 i militanti di Ansar el Sharia, uno dei gruppi islamici radicali, sequestrarono l’ambasciatore giordano per ottenere la liberazione di un loro uomo fermato ad Amman.