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 2015  luglio 22 Mercoledì calendario

L’arte della resa imparata e messa da parte. Il vinto che si arrende e il vincitore che non lo uccide. Sopravvivere da codardi piuttosto che morire, fantasma di tutti i guerrieri da Ettore in poi, fino alla Germania che umilia i greci, con una guerra (finanziaria). E senz’arte attorno a noi tutto è di nuovo tenebre

La resa è davvero il punto archimedeo della guerra. Non semplicemente morire, ma la terza via: il vinto che si arrende e il vincitore che non lo uccide. Apparentemente il meno entusiasmante; sopravvivere da codardi piuttosto che morire, fantasma di tutti i guerrieri da Ettore in poi. Eppure eppure… Il granatiere della Vecchia Guardia che a Waterloo replica con il ribaldo «Merde!» alla proposta inglese di capitolazione, la storia ci dice che è sopravvissuto. E allora?
Come è difficile vincere: oh!, non parlo del campo di battaglia, quella è arte che si può imparare, quasi una matematica rigorosa dai tempi del politecnico Buonaparte, o questione banale di catene di montaggio, cannoni, proiettili e droni adesso che dopo il 1914 la guerra è diventata produzione industriale, un consiglio di amministrazione. Intendo vincere l’ultima partita, quando i cannoni tacciono, il nemico ha alzato le mani (semiologica invenzione degli antichi elleni), e non si spara più. Quando si ha la forza del Male in pugno, la libertà di farlo o non farlo. Il difficile è lì, rallentare lo sconvolgimento ebbro che si accompagna alla consapevolezza di compiere grandi azioni anche nefande, non dimenticare che la spietatezza, le rese implacabili servono solo a porre le premesse alle inevitabili «revanche».
E come è difficile arrendersi: scegliere l’attimo prima che tutto diventi inevitabile e non si possa che sperare nella clemenza, legare il nemico fortunato non alla considerazione, incerta, della pietà, quanto a quella tangibile del suo interesse. Il momento in cui si trovano faccia a faccia, nel silenzio finalmente tornato sulla terra, coloro per cui la guerra è stata contemporaneamente madre e figlia. Che l’hanno, per anni, cresciuta come lei ha fatto con loro, di cui hanno assaggiato incudine e martello.
L’attimo fatale
Momento non a caso assai frequentato dai pittori, quello è l’attimo fatale dove si svelano gli uomini e i caratteri. Lionel Royer, pittore «pompier» ottocentesco, tratteggia la resa di un orgoglioso Vercingetorige che getta baldanzosamente le armi a un Cesare seduto e perplesso. Attorno facce nuvolose e contratte di veri combattenti, niente gridi. Iconografia di una «grandeur» intatta: in fondo il vinto sembra l’altro. Capovolgere la sconfitta in vittoria, camuffarla, artificio formidabile che l’alto comando tedesco nel 1918, per esempio, cesellò con libidica perfezione.
E le preziose rese barocche? Che perfetto teatro corneilliano! La guerra è già ammansita dalle regole: capitani che si inchinano porgendo spade prese per la punta, con infinita delicatezza, nello stupore commosso dei vincitori, e attorno la audacia dei guerrieri di razza, semplice e leggera come un gioco. La resa di Breda di Velázquez: dove Ambrogio Spinola si piega con infinità umanità, tra una selva di lance finalmente levate, verso il vinto Maurizio di Nassau.
Ad Appomattox la resa del sudista Lee in grande uniforme di fronte al vincitore nordista Ulysses Simpson Grant, liso e sciupato dalla fatica della vittoria, ci propone un altro apparente capovolgimento dei ruoli, il debole che toglie la scena all’onnipotente. Ma è Lee che ha rinunciato saggiamente a continuare la lotta affidandosi alla guerriglia, perché sa quanto potrebbe costare al suo popolo esausto. E Grant che non vuole stravincere, vuole ricostruire, anche se si diceva che le sue iniziali U.S. significassero «Unconditional Surrender».
La ferocia umanizzata
Dunque la guerra, l’inferno, al contrario di quanto pensava l’ammiraglio inglese Fischer, si può umanizzare! I tempi moderni sono in fondo anche storia della moltiplicazione dei vincoli che vengono imposti al vincitore o che lo stesso vincitore si impone, memore del vigore del controllo sociale e del cambiamento di mentalità. Della guerra in fondo diffidiamo o ci vergogniamo, e quindi la maneggiamo, anche quando è vittoriosa, con cautela. Noi: l’Occidente, gli Europei. Ma è sempre così? E gli altri?
È la vicenda greca (cruenta guerra economica ma pur sempre guerra, e civile) e l’anniversario della creazione del Califfato che mi hanno fatto riflettere su un libro affascinante di Holger Afflerbach,L’arte della resa, che il Mulino ha opportunamente tradotto per l’Italia.
Tsipras e la Merkel
I greci hanno cercato, disperatamente, un modo per arrendersi senza far vedere che si arrendevano, hanno invano sperato che il potente vincitore (la Germania? l’Europa? la Finanza?) offrisse loro una via per alzare le mani senza umiliazione. Si agitano, inveiscono, ragionano, tentano di mettere in salvo qualcosa dalla catastrofe. Si manifesta tutto quello che di avido e di misero cova nei vinti, nella impazienza di non sentirsi più sicuri dopo aver fatto tutto e subìto tutto. Invano. Ci sono solo sorrisi falsi nelle foto della Merkel con Tsipras.
Suvvia. Non si ha più voglia di sprecar parole sulla guerra. Che è purtroppo il nostro presente. Troppo spesso e troppo da vicino ne abbiamo visto il ghigno feroce e l’orrendo respiro che ci hanno fatto tremare il cuore. La odiamo troppo per credere ancora alle sue frasi vuote come bolle di sapone che dall’una e dall’altra parte la canaglia rimasta nelle retrovie fa salire al cielo per darle il valore di una necessità e di una missione.
Ma l’arte della resa, ah quella merita davvero studiarla, ha impegnato l’uomo per secoli la formula tedesca (tedesca!) «sich auf Gnade und Ufgnade ergeheb», consegnarsi all’arbitrio del vincitore. Come limare, smussare l’ordine che il kaiser Guglielmo II sibilò nel suo terribile messaggio alle truppe che partivano per la Cina, a domare la rivolta dei Boxer: non concedete nessun perdono! Le rese tedesche, quelle imposte e quelle subite: in un secolo sono diventati davvero esperti, gli alemanni. Sperimentarono nei saloni di Versailles nel 1919 la ottusa volontà franco-britannica di castighi immeritatamente severi, che mise le premesse della pace senza pace e fornì all’imbianchino austriaco argomenti per la nibelungica resa dei conti, vent’anni dopo. E l’umiliante contrappasso del vagone di Compiègne.
Gli dèi della guerra si arrendono di nuovo nel 1945: lo stregone monologante è morto nel bunker, coerente con l’affermazione che «capitolazione» era l’unica parola del vocabolario che non avrebbe mai pronunciato. E loro? Un’altra storia, pensano: intanati nelle divise eleganti, in mano i bastoni di maresciallo tempestati di diamanti, si vede che si preparano con sguaiato narcisismo al rituale, scambi di saluti con i pari grado, tacchi che scattano, le mani che si tendono: onore onore onore… Invece son tenuti in branco, ammiragli e feldmarescialli, guardati a vista da soldati semplici come banali assassini o gaglioffi.
Vincere o morire
Eppure i tedeschi si aspettavano una pace più brutale di quella del 1918, e c’erano ragioni visti i residui peccaminosi del conflitto. Circolavano spietatezze di stampo assiro: un tale di nome Morghentau predestinava la Germania a una terra di iloti specializzati nella produzione di patate. Ottennero, complice la Realpolitik, una pace magnanima. La politica del venirsi incontro, che come ricorda Afflerbach risulta quasi sempre la politica migliore anche per il vincitore. Con la Grecia gli eredi di quella resa magnanime non sembrano aver imparato la lezione.
La umanizzazione della resa, l’autolimitazione del vincitore che stimola anche la tentazione del soccombente a farla finita, funziona purtroppo solo nelle guerre «sistemiche», quelle che accettano regole. Sembra la conferma del principio ottimistico, ottocentesco, che il ruolo della violenza nella società umana sia in progressiva e inesorabile diminuzione. Ma ora siamo entrati nelle nuove guerre del fanatismo e delle etnie come in una forsennata e lunga bufera.
Il Califfato ha riportato indietro l’orologio della guerra, al principio brutale del vincere o morire, al principio della violenza assoluta. Tornano in auge relitti verbali primitivi, «vae victis!», perfino sintatticamente deformi; Abu Bakr declama apoftegmi, uccidete gli infedeli purificate eliminate… davanti a cui inorridiscono Grotius ed Elias. Avvampano uomini giovani buttati a capofitto tra le braccia della morte per via di una cieca obbedienza a un dio totalitario, vittime dell’irresistibile furia di una psicosi di massa. L’arte della resa, paziente ricamo di secoli, è impraticabile. Attorno a noi tutto è di nuovo tenebre.