la Repubblica, 22 luglio 2015
La solitudine di Bibi Netanyahu, tra flop diplomatici e scandali. Le preoccupazioni del premier israeliano non riguardano soltanto l’Iran e l’accordo di Vienna. La magistratura lo accusa di aver usato fondi pubblici per scopi privati. E il suo governo è in bilico
Le preoccupazioni del premier Benjamin Netanyahu non riguardano soltanto l’Iran e l’accordo «nefasto» firmato a Vienna dall’Occidente e accettato all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Una sconfitta per il premier che contro questa intesa ha speso gli ultimi due anni e che ha ridotto i rapporti con gli Usa al minimo storico. Avanza per il premier anche un fastidioso fronte interno, fatto di indagini più approfondite sulle spese delle sue residenze pubbliche e private, e dello scandalo sul gas che da giorni domina l’informazione in Israele con il governo accusato dal Controllore dello Stato Yosef Shapira di aver favorito la formazione di monopolio, composto da amici e finanziatori del primo ministro.
Ieri mattina è trapelata la notizia che il primo ministro e la moglie Sara saranno oggetto di un’indagine penale, accusati di aver usato fondi pubblici per scopi privati. Il Procuratore generale Yehuda Weinstein ha ordinato il procedimento dopo un’indagine preliminare avviata in febbraio a seguito di una serie di “denunce” che hanno fatto notizia negli ultimi anni in Israele. L’ex maggiordomo della residenza Meni Naftali, che è stato licenziato, è il principale accusatore ma anche altri dipendenti si sono rivolti al giudice. Nel dossier c’è anche il trasferimento nella villa della famiglia Netanyahu a Cesarea di mobili da giardino acquistati con fondi pubblici per la residenza ufficiale di Gerusalemme. Ci sono poi fatture “esorbitanti” per riparazioni nella residenza privata e il “bottlegate”, la resa dei vuoti che veniva però intascata dalla signora Netanyahu invece che tornare nel bilancio. Il vice direttore generale dell’Ufficio del premier Ezra Saidoff e l’elettricista – costoso come un mago del bisturi – saranno presto interrogati dalla polizia. Sul fronte politico, i commentatori ritengono che però Netanyahu non dovrebbe essere preoccupato per questa indagine. Anche se la sua maggioranza si regge su un solo voto alla Knesset, non correrebbe il pericolo di chiudere prematuramente il suo quarto mandato da premier, nonostante gli appelli dell’opposizione a dimettersi dopo “l’affaire Iran”. «Che margine di manovra – ha detto Amit Segal, commentatore di Channel 2 – ha un esecutivo prigioniero di ogni singolo parlamentare?». Adesso ogni deputato della coalizione deve comunicare eventuali viaggi all’estero, basta un assente per essere battuti dall’opposizione. Come stava per accadere anche per l’Iran e per Netanyahu sarebbe stata una beffa. All’1,30 del mattino un’auto ufficiale ha dovuto prevelare a casa sua in ciabatte il ministro Yuval Steinitz, a letto febbricitante, per salvare il governo al momento del voto.
Non si placano nemmeno le voci che chiedono una commissione d’inchiesta sul caso Iran per «la più grave sconfitta diplomatica della Storia di Israele dalla sua fondazione», come l’ha definita Yair Lapid. Ieri l’incontro con il capo del Pentagono Carter – nella regione proprio per rassicurare Israele e gli altri Paesi arabi sunniti – si è chiuso freddamente. E all’uscita davanti ai giornalisti che aspettavano, Netanyahu ha “sottratto” alla stampa il segretario alla Difesa Usa, presumibilmente per contenere il rischio che emergessero i loro dissensi sull’accordo sul nucleare iraniano. Non è ancora chiaro se il premier voglia scontrarsi con il presidente Barack Obama e giocare la carta del Congresso Usa, che deve votare l’intesa di Vienna e dove i repubblicani sono ferocemente contrari all’intesa. Ma per realizzare la sua speranza, Netanyahu dovrebbe convincere 13 congressmen del Partito Democratico a votare contro il loro presidente. Una possibilità che appare davvero remota.