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 2015  luglio 21 Martedì calendario

Caiazza, sette minuti per morire. Tanto è bastato al killer del gioielliere di Prati per tagliare un lenzuolo, attaccarlo alle sbarre della finestra e impiccarsi. Poco prima, durante la deposizione aveva detto: «Non pensavo di averlo ucciso, è una cosa terribile. Ora chiudete la porta e buttate la chiave». Classe 1983, il suo curriculum criminale oltre alla droga vanta precedenti per furto ed estorsione, la resistenza e le lesioni a un poliziotto che tentò di investire con lo scooter per le vie della città nel 2005, nonché l’accusa di avere stuprato una studentessa a Cassino (assolto). Ma soprattutto ha visto morire la sua ex fidanzata di overdose, la sorella malata e ha perso la sua lotta contro l’eroina

«Mi chiamo Ludovico Caiazza, vivo a Roma da quattro anni, convivo con una donna. Non pensavo di averlo ucciso, è una cosa terribile. Ora chiudete la porta e buttate la chiave». Sono le nove di domenica mattina quando l’uomo incontra la psicologa di Regina Coeli. È disperato, incredulo per quanto è successo. La dottoressa tenta di tranquillizzarlo. Per lei, il caso del nuovo detenuto non è di quelli gravissimi, lo valuta a medio rischio. Gli dà un calmante, lo rimanda in cella, anche se non smette di monitorarlo insieme con un altro collega medico.
La stanza è nella VII sezione, posizionata proprio davanti alla postazione degli agenti penitenziari. Gli viene assegnata “la grande sorveglianza”, un controllo ogni 15 minuti. Viene stabilito anche che il detenuto stia in isolamento: ha avuto precedenti per violenza sessuale, è meglio tenerlo lontano dagli altri carcerati, perché è così che vuole la prassi. Nello stesso giorno, alle 10,15, Caiazza incontra il suo avvocato. Forse è proprio quel dialogo a fargli capire che la pena sarà dura, che la situazione è proprio brutta.
IL CONTROLLO
La disperazione si fa strada con il passare delle ore, l’astinenza dalla droga rende tutto più pesante. Durante il giorno non gli è stato ancora somministrato il metadone. E i pensieri si fanno bruttissimi. Poco prima delle 22,30 uno degli agenti effettua il controllo, e firma regolarmente il verbale: tutto sembra a posto. In realtà Caiazza sta già preparando la sua morte. Taglia il lenzuolo, lo attacca alle sbarre della finestra e si uccide. Alle 22,45 viene fatta la terribile scoperta. L’agente di controllo nella sezione entra nella cella, il giovane è ancora vivo, prova a rianimarlo insieme con il collega addetto alla rotonda, chiamano l’ambulanza che arriva in sette minuti. Ma non c’è niente da fare: viene dichiarata la morte alle 23,25. Si è ucciso tra un controllo e un altro, in un brevissimo lasso di tempo, «sette minuti», diranno i poliziotti penitenziari. Una esecuzione rapidissima che doveva essere stata pensata e preparata durante tutta la giornata.
LE POLEMICHE
Scoppiano le polemiche: perché non gli è stato dato un controllo più rigido? Come mai non è stato guardato a vista? Era agitato, preoccupato, chi ha sottovalutato il problema? In quella sezione, domenica scorsa c’erano 109 detenuti e quattro persone di controllo: due agenti e due ufficiali, gli ultimi due stavano negli uffici. «È un grande dispiacere per noi quello che è successo – spiega la direttrice di Regina Coeli Silvana Sergi – ma credo che non ci si possa contestare niente. Il nostro lavoro è stato fatto bene».
Intanto la procura ha aperto un’inchiesta e un’indagine interna, per accertare se ci siano state negligenze, è stata disposta anche dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. «Si trattava di fare una scelta sulla base delle prime informazioni – dichiara il capo del Dap, Santi Consolo – E dalle prime notizie trapelate, Ludovico Caiazza aveva precedenti per violenza sessuale e aveva una situazione personale di forte disagio. Per questo, per tutelarlo, non era stato messo a contatto con altri detenuti. Abbiamo avviato accertamenti per ricostruire la dinamica dei fatti, come è prassi in questi casi. Da ieri notte sono in costante e diretto contatto per acquisire informazioni su quanto accaduto. Gestire in carcere persone che manifestano un forte disagio individuale, come in questo caso, reso ancor più forte dal fatto che il soggetto era accusato di fatti gravissimi, non è semplice. La polizia penitenziaria svolge un compito delicatissimo. È vero che la compresenza di altri detenuti può aiutare a prevenire una situazione come quella che si è verificata. Ma nel caso specifico ha prevalso, in prima istanza e in attesa di più precisi riscontri, la necessità di tutelare il detenuto. Per sua tutela, si è scelto di lasciarlo in cella da solo».
Questa mattina, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, incontrerà il capo del Dap «per chiarimenti sulle dinamiche della vicenda e per fare delle valutazioni più precise». Mentre a piazzale Clodio il fascicolo aperto dal procuratore Giuseppe Pignatone è stato affidato al pm Sergio Colaiocco che, insieme con il pm Francesco Musolino titolare dell’inchiesta sul delitto, ha chiesto ai carabinieri del Reparto operativo, di fare chiarezza anche su questa nuova tragedia. Nel pomeriggio di ieri, poi, il Ris ha effettuato dei sopralluoghi nella cella e questa mattina si svolgerà l’autopsia. Si vuole escludere ogni possibile stranezza o anomalia, chiarire ogni dubbio. Nelle prossime ore i pm sentiranno i due agenti penitenziari e la psicologa: uno degli ufficiali è già stato sentito e ha confermato la ricostruzione ufficiale.
IL SINDACATO
«L’agente di servizio ha fatto di tutto per salvargli la vita – spiega Donato Capece, segretario generale del sindacato della Polizia penitenziaria, il Sappe – Se la carenza di organico non affliggesse anche Regina Coeli, forse ci sarebbero meno morti. Purtroppo succede spesso che gli indagati si rendano conto della gravità di quello che hanno fatto solo quando arrivano in carcere. Per questo abbiamo chiesto più volte di dotare di lenzuola di carta “i nuovi giunti”. Noi come polizia penitenziaria interveniamo con l’obiettivo di salvare tutti, anche il peggior delinquente, ma la situazione nelle carceri italiane resta ad alta tensione, nonostante talune rassicuranti dichiarazioni che non sono conformi alla realtà».
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Aveva 24 anni Ludovico Caiazza quando i carabinieri del comando provinciale di Latina, nel 2007, lo fermarono in auto a Formia con 3 grammi di eroina. Era in compagnia della fidanzata di allora, Elisabetta Forcina, 26 anni, un mese dopo stroncata da un’overdose mentre era ai domiciliari. Per gli inquirenti si aprì la strada a una maxi-operazione antidroga battezzata «Forcella formiana»: trenta persone indagate, di cui dieci finite dietro le sbarre. Caiazza venne prelevato dalla Comunità di San Patrignano, dove aveva iniziato un fallimentare percorso di liberazione dalla tossicodipenza, e rinchiuso nel carcere di Rimini. Fiumi di eroina e cocaina, secondo la Procura, venivano trasportati con viaggi quasi quotidiani dai «corrieri» pontini dal quartiere Forcella di Napoli sulle belle spiagge del Golfo di Gaeta e sull’isola di Ponza. Per Caiazza le porte del carcere sono un baratro.
Classe 1983, il suo curriculum criminale oltre alla droga annovera precedenti per furto ed estorsione, la resistenza e le lesioni a un poliziotto che tentò di investire con lo scooter per le vie della città nel 2005, nonché l’accusa, condivisa col fratello e un amico, di avere stuprato una studentessa a Cassino, fattaccio da cui i tre uscirono assolti. Ma è soprattutto la morte dell’ex fidanzata Elisabetta a segnarlo profondamente. 
NUOVA VITA
Caiazza, però, tenta di rifarsi una vita. Nel 2010 approda nella Capitale, conosce l’attuale compagna, Ilaria, coetanea, commessa di un grande magazzino in zona Prati, proprio a due passi dalla gioielleria che mercoledì scorso Ludovico ha rapinato ammazzando l’orafo Giancarlo Nocchia. 
A Roma, Caiazza si trasferisce a casa della fidanzata. L’appartamentino di via Scarpanto, tra le periferie popolari di Val Melaina e il Tufello, con davanti alla porta il tappetino con la scritta “I love my home” doveva essere il loro nido, ma non è bastato a tenerlo lontano dalla vita spericolata e dalla galera. Fino a uccidere, fino a morire.
Nel 2014 un nuovo lutto, una nuova ferita che brucia e che riempie di nero la testa e i pensieri: muore la sorella malata da tempo. Proprio mentre il giovane napoletano era finito in affidamento in prova dopo l’ennesimo arresto per droga. Un altro lutto, un colpo da kappaò quando Ludovico provava a curarsi al Sert, il servizio per tossicodipendenti. 
IN CURVA
A tenerlo in vita c’era la sua grande passione, il Napoli. Quando poteva Caiazza era sugli spalti del San Paolo, tra gli ultrà della Curva B. Ma era anche sulle gradinate dell’Olimpico il 3 maggio 2014, quando fuori dallo stadio venne ammazzato il tifoso azzurro Ciro Esposito durante la finale di Coppa Italia. Caiazza sul suo profilo Facebook, dove appare con il nick “Santo subito”, pubblica le foto coi manifesti di solidarietà all’ultrà ucciso, ma anche a Stefano Cucchi. 
A Roma invece Caiazza lascia poche tracce. Al Tufello, estrema periferia Nord della Capitale, lo conoscono in pochi. Ieri tutti prendevano le distanze. «La prima cosa che ti insegnano sulla strada – racconta Ale, che tra i palazzi Ater di Val Melaina è nato e cresciuto – è che non si fanno mai le rapine ai gioiellieri e ai cinesi. Rischi troppo, sono armati».
IL COMPRENSORIO
Il comprensorio di via Scarpanto è come un piccolo paese e qualcuno sostiene che nelle ultime due settimane sia stato ospite in via Tonale, non distante. «Ludovico ha vissuto in questo lotto per poco tempo, da un paio di mesi non lo vedevamo più – dice un condomino – so che era tornato a Formia dove risiede la famiglia». Una famiglia sconvolta, che ieri si è detta «addolorata e incredula per quello che Ludovico ha fatto». Per i parenti del gioielliere ucciso invece, Ludovico Caiazza non è che «una bestia». 
L. De Cic. e A. Mar.