la Repubblica, 21 luglio 2015
Casa Bianca, la corsa degli alternativi. Dagli eccessi di Donald Trump (che insulta tutto e tutti) all’ex hippy Bernie Sanders (capace di comizi infuocati che farebbero impallidire Podemos e Tsipras), e poi ci sono la businesswoman Carly Fiorina, il neurochirurgo afroamericano Ben Carson e l’ex governatore democratico del Maryland Martin O’Malley, reduce della rivolta di Baltimora
DONALD TRUMP in pochi giorni ha insultato tutti: dagli immigrati ai reduci di guerra. Eppure il magnate immobiliare contende al blasonato Jeb Bush il primo posto nei sondaggi tra la base repubblicana. Bernie Sanders, l’unico senatore degli Stati Uniti a proclamarsi «socialista», capace di comizi infuocati che farebbero impallidire Podemos e Tsipras, è in testa a testa con Hillary Clinton per la popolarità nel New Hampshire: lo Stato-chiave dove si aprono le primarie Usa nel gennaio 2016. Nella corsa per la nomination, a 15 mesi dall’elezione presidenziale, è il momento degli outsider. Stanca dei politici di professione, una parte dell’opinione pubblica americana sta cercando alternative radicali. E il mercato politico le offre. Nel partito repubblicano, dove la lista dei candidati alla nomination è più lunga, sono degli outsider perfetti la donna manager Carly Fiorina (ex chief executive di Hewlett Packard) e il neurochirurgo afroamericano Ben Carson.
«Il Messico ci manda qui i suoi stupratori e narcotrafficanti. Forse c’è anche qualche persona per bene, fra tutti questi immigrati». È la frase esplosiva con cui Trump si è inimicato per sempre una minoranza importante, gli ispanici. Poco dopo se l’è presa con John McCain, l’anziano senatore dell’Arizona che sfidò Barack Obama nel 2008 e che rimane una delle figure più rispettate nel partito repubblicano, per la sua autorevolezza in politica estera. Sbeffeggiando la sua biografia militare e le sue decorazioni – pilota di guerra, fu abbattuto, incarcerato e torturato dai vietnamiti – Trump ha detto che «i veri eroi di guerra non si fanno catturare». Un insulto non solo a McCain ma a migliaia di ex combattenti che hanno sofferto la prigionia in mani nemiche.
Queste sbandate ricordano altri eccessi del passato. Il 69enne che «vale 10 miliardi» (è la stima del proprio patrimonio secondo Trump) fece scalpore nella campagna del 2012 quando cavalcò la falsa leggenda su Obama nato in Kenya. Per mesi continuò a esigere che il presidente mostrasse il certificato di nascita – un americano nato all’estero non può fare il presidente – e alla fine fu sbugiardato quando Obama tirò fuori l’ambita prova. Ma nel 2012 Trump diede solo spettacolo, alla fine non si candidò. Stavolta fa sul serio. Lo stato maggiore del partito repubblicano è in allarme. Il presidente del partito, Reince Priebus, ha chiamato il miliardario newyorchese per scongiurarlo: «Basta con gli attacchi personali e le offese agli altri candidati repubblicani». Trump è un maestro della provocazione. E nell’intellighenzia di destra qualcuno benedice il suo stile. William Kristol, uno dei più influenti neoconservatori, direttore della rivista Weekly Standard, lo ha difeso: «È giusto attaccare il permissivismo dell’Amministrazione Obama sugli immigrati clandestini. Trump è un tipico outsider, dice quello che l’establishment non vuol sentire, per questo piace agli elettori».
Outsider lo è di certo anche Sanders, sul fronte democratico. A 73 anni, il senatore del Vermont è diventato una spina nel fianco per Hillary Clinton. Da anni Sanders è il beniamino della sinistra radicale, corteggiato dai conduttori di talkshow come Rachel Maddow per le sue staffilate contro i poteri forti del capitalismo. Basta sentirlo parlare per capire che è lui il vero erede di Occupy Wall Street. Tra le sue frasi memorabili: «Non è il nostro Congresso a regolare Wall Street. È Wall Street che regola il Congresso». «Bisogna impedire che le grandi aziende comprino le nostre elezioni». «L’establishment – quello economico, quello politico, e quello mediatico – ha tradito il popolo americano». «La guerra di classe è quella che fanno i nostri miliardari contro il ceto medio. E vogliono stravincerla».
Se la Clinton è razionale, competente, preparata, Sanders è passionale, autentico, trascinatore. Sanders non è un estremista da caricatura, il suo fascino non è solo ideologico. Facendo il suo ritratto sul New York Times Magazine, il docente della Columbia University Todd Gitlin ricorda che Sanders si è cimentato con la gavetta delle amministrazioni locali, ha scalato tutti i gradini di una carriera pubblica. Era un giovane hippy quando fu eletto sindaco nella cittadina di Burlington, e ha lasciato il ricordo del suo buongoverno. Sostituito da un repubblicano che tagliò tutti i servizi pubblici, Sanders fu rimpianto alla prima nevicata che paralizzò Bulington per mancanza di spazzaneve. Apparvero sui paraurti delle auto gli adesivi con lo slogan: «Almeno gli hippy spalavano le strade».
Sanders e Trump, diversissimi tra loro, hanno un elemento in comune. In America si chiama “populismo”. Non ha l’accezione spregiativa che si dà a questo termine in Europa. Grandi populisti tuttora venerati furono Ted Roosevelt e il Progressive Moveoutsider ment che lanciarono le prime riforme contro il potere monopolistico dei Baroni Ladri che dominavano le ferrovie e il petrolio. Anche il cugino Franklin Roosevelt usò l’appeal del populismo contro i banchieri colpevoli del grande crac del 1929. Populista nel linguaggio americano sta per popolo in contrapposizione con élite, oligarchie, establishment.
Non tutti i populisti hanno la fortuna politica dei Roosevelt. La fiammata di Trump nei sondaggi potrebbe rivelarsi effimera, un fenomeno legato alla sua
name-recognition : nella pletora di 15 candidati repubblicano lui è l’unico nome veramente famoso, ha inventato un reality televisivo di successo ( The Apprentice ), ha grattacieli e hotel intitolati Trump Tower.
Ma è anche un concentrato di incoerenza e contraddizioni. Si è espresso a favore dell’aborto e per il controllo sulle armi, due tabù per la destra. Quando ancora si dichiarava democratico e finanziava le campagne dei coniugi Clinton, Trump propose di ripagare tutto il debito pubblico Usa con una maxi-patrimoniale del 14% su tutti i beni dei ricchi.
A parte le tre mogli, anche il suo passato imprenditoriale può trasformarsi in handicap. Kevin Williamson, opinionista di destra, lo demolisce così: «Self-made man, uno che ereditato 27 mila appartamenti dal padre palazzinaro? Dopo le sue quattro bancarotte, questo buffone che ha più cattivo gusto di Caligola, è qualificato per governare la nazione col più alto debito pubblico della storia». L’incubo per la destra? Che Trump con la sua eloquenza straripante possa dominare i dibattiti e poi diventare una caricatura di Mitt Romney, un altro straricco che probabilmente si giocò l’elezione 2012 con una frase sprezzante contro il «47% degli americani che vogliono vivere di assistenza».
In quanto a Sanders, forse alla fine sarà un utile pungolo per la Clinton. Con le sue denunce contro le ingiustizie sociali, il senatore del Vermont obbliga l’ex segretario di Stato a prendere posizioni più nette: la Clinton sta per aggiungere al suo programma elettorale una sovratassa sui capital gain finanziari. Per quanto Sanders sia popolare nel New Hampshire, a livello nazionale il divario rimane ampio: 57% di consensi alla Clinton contro il 18% per lui. Difficile battere una candidata che potrebbe polverizzare il record nella raccolta fondi accumulando per la sua campagna un tesoro di guerra da 2,5 miliardi.