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 2015  luglio 21 Martedì calendario

Cambiare sesso senza operarsi. D’ora in poi basterà chiedere la rettifica all’anagrafe. Lo ha deciso la Cassazione: «Ci possono essere casi in cui l’adeguamento chirurgico non è possibile per ragioni di salute, È pertanto sempre necessario procedere al bilanciamento del diritto all’identità personale e del diritto alla salute con una prevalenza del secondo sul primo, purché in presenza di una diagnosi di disforia di genere e di una modificazione certa dei caratteri sessuali secondari». Esultano le associazioni lgbt mentre per l’Associazione Matrimonialisti Italiani la sentenza, seppur «storica, può fungere da apripista a una serie di ricorsi per motivi di carattere psicologico»

Nessun intervento chirurgico. Per cambiare sesso basterà chiedere la rettifica all’anagrafe. Ha deciso così la Cassazione, accogliendo il ricorso di un 45enne che, nel 1999, aveva ottenuto dal tribunale di Piacenza l’autorizzazione al trattamento medico chirurgico per diventare donna ma che, 10 anni dopo, aveva chiesto di poter modificare i suoi dati senza sottoporsi all’operazione temendo «complicanze di natura sanitaria» e sostenendo «di avere già raggiunto un’armonia con il proprio corpo che lo aveva portato a sentirsi donna a prescindere». Domanda che il tribunale aveva rigettato, ritenendo il trattamento chirurgico «condizione sufficiente ma necessaria». Dello stesso avviso era stata la Corte d’appello di Bologna.
I supremi giudici hanno invece accolto il ricorso, e decidendo nel merito, hanno detto sì alla domanda di rettificazione di sesso da maschile a femminile, ordinando agli ufficiali dello stato civile competenti le modifiche anagrafiche competenti. «L’interesse pubblico alla definizione certa dei generi, anche considerando le implicazioni che ne possono conseguire in ordine alle relazioni familiari e filiali – si legge nella sentenza non richiede il sacrificio del diritto alla conservazione della propria integrità psico fisica sotto lo specifico profilo dell’obbligo dell’intervento chirurgico inteso come segmento non eludibile dell’avvicinamento del soma alla psiche». Per la Suprema Corte, «l’acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale sia accertata, ove necessario, mediante rigorosi accertamenti tecnici in sede giudiziale».
Secondo gli ermellini, «la scelta di sottoporsi alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari non può che essere una scelta espressiva dei diritti inviolabili della persona». Per di più, scrive il Palazzaccio, «ci possono essere casi in cui l’adeguamento chirurgico non è possibile per ragioni di salute, trattandosi di interventi invasivi e non ancora fondati su una tecnica chirurgica sicura. È pertanto sempre necessario procedere al bilanciamento del diritto all’identità personale e del diritto alla salute con una prevalenza del secondo sul primo, purché in presenza di una diagnosi di disforia di genere e di una modificazione certa dei caratteri sessuali secondari», quali conformazione del corpo, timbro di voce, atteggiamento e comportamenti esteriori, «attraverso interventi di chirurgia estetica e terapie ormonali». Non è un problema nemmeno la sterilità, come invece sollevato dai giudici bolognesi: «Essere sterile non può essere una condizione ineliminabile per la rettificazione degli atti anagrafici e ciò perché la legge non lo prevede espressamente» perché «sarebbe violata da dignità della persona umana».
Esultano le associazioni lgbt, mentre per l’Associazione Matrimonialisti Italiani la sentenza, seppur «storica, può fungere da apripista a una serie di ricorsi per motivi di carattere psicologico». Immediata la polemica dell’associazione pro-family “Manif pour tous”: «La Cassazione ha abolito l’unico parametro oggettivo nelle vicende di rettifica del sesso anagrafico. Da oggi l’elemento qualificante sarà la sola, mera volontà di cambiare sesso». Scettico anche il presidente della commissione Lavoro del Senato, Maurizio Sacconi (Ap): «la sentenza stabilisce, in barba alla Costituzione, che il genere non è più quello di natura bensì quello soggettivamente percepito».