Corriere della Sera, 21 luglio 2015
Tutti i misteri dei quattro italiani rapiti in Libia. L’agguato a 60 chilometri da Tripoli, nei pressi dell’impianto della Mellitah Oil and Gas. Sarebbero stati pedinati sin dalla Tunisia Aperto. un fascicolo per sequestro a scopo di terrorismo. Si seguono varie piste, dalle bande locali all’Esercito delle Tribù
Li hanno seguiti fino in Tunisia. Li hanno pedinati nel loro ritorno in Libia. Poi, a 60 chilometri da Tripoli, nei pressi dell’impianto della Mellitah Oil and Gas, è scattato l’agguato. Quattro italiani, da domenica scorsa, sono nelle mani di rapitori libici. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo per sequestro a scopo di terrorismo. Fino a ieri sera non c’era ancora alcuna rivendicazione dell’Isis o di altre formazioni fondamentaliste, ma ciò non cambia comunque la contestazione.
Secondo le prime informazioni Gino Tullicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla, della provincia di Enna, Siracusa, Roma e Cagliari, che lavorano nel colosso della manutenzione Bonatti di Parma erano uomini preziosi per il funzionamento dell’impianto. E dunque non è escluso che siano un obiettivo scelto con cura. Per Al Jazeera a rapirli sarebbe stato il cosiddetto «Jeish al Qabail» (l’Esercito delle Tribù): milizie tribali della zona, ostili a quelle di «Alba della Libia». E, citando fonti militari di Tripoli, l’emittente ipotizza che dopo il rapimento, avvenuto nel villaggio di al Tawileh, vicino Mellitah, siano stati portati a Sud.
«È sempre difficile dopo poche ore capire la natura, i responsabili di un rapimento», ha dichiarato, cauto, il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ieri, da Bruxelles, dove si discutevano possibili sanzioni ad personam contro i leader libici contrari all’accordo di pacificazione dell’inviato Onu, Bernardino Leon, che oggi terrà una conferenza stampa congiunta con Gentiloni alla Farnesina. Di una cosa però il ministro è sicuro: «Non è stata una rappresaglia nei confronti del nostro Paese». Di un atto ostile contro l’Italia, motivato dal nostro ruolo diplomatico avuto nel portare anche Misurata, prima alleata di Tripoli, dalla parte del governo di Tobruk nell’accordo di pace in discussione, si era parlato già nei giorni dell’attentato contro il consolato italiano a Il Cairo. Al momento la pista libica per l’autobomba egiziana non ha trovato conferme. Ma è ancora vivo anche l’eco delle minacce giunte dall’Isis al nostro Paese nello scorso febbraio: «Prima ci avete visti su una collina della Siria. Oggi siamo a sud di Roma... in Libia», diceva in un video l’autore di una decapitazione, con in mano un coltello insanguinato.
Ora questo sequestro. Perché? «È sempre difficile dopo poche ore capire la natura, i responsabili di un rapimento. È una zona in cui ci sono anche precedenti. Al momento ci dobbiamo attenere alle informazioni che abbiamo e concentrarci sul lavoro per ottenerne altre sul terreno» ha raccomandato Gentiloni, che l’Isis definì «ministro crociato». E pur promettendo il massimo impegno del governo per cercarli, ha evidenziato come questo evento dimostri quanto sia «pericoloso restare nel Paese».
La Farnesina ha già suggerito di lasciare il territorio libico dal giorno in cui, dopo le minacce dello scorso febbraio, è stata chiusa l’ambasciata. Per questo ieri filtrava la contrarietà della diplomazia per le mancate cautele dell’azienda nello spostamento dei suoi dipendenti, rimasti sul territorio libico contravvenendo agli appelli della Farnesina. Quanto accaduto «conferma l’urgenza di affrontare la situazione» in Libia, ha esortato l’alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Federica Mogherini. Lo scorso 22 marzo a Tobruk, venne rapito Gianluca Salviato, 49 anni. Ieri il suo pensiero è tornato agli otto mesi di prigionia: «È un dolore anche per me, una ferita che si riapre».
Virginia Piccolillo
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Chi ha rapito gli italiani? E per quale motivo? L’ipotesi che va per la maggiore tra gli osservatori è quella del sequestro a scopo di estorsione. Aggravato, ingigantito e soprattutto complicato dal fatto che la Libia resta un Paese profondamente diviso, lacerato da lotte interne che sono prima di tutto tribali, non hanno nulla a che fare con l’Islam e la guerra di religione, e tuttavia questi fattori nella confusione generale possono assumere valenze importanti. «Ai banditi può fare comodo ammantarsi di una patina ideologica. Può servire a fare paura. E anche per darsi un’aureola di santità che in fondo non hanno per nulla», dice Marco Vignali, uno dei più noti tra i tanti imprenditori italiani che da molti anni operavano nel Paese, ma che ultimamente proprio l’aggravarsi della situazione ha costretto a tornare in Italia.
Le ragioni per cui sono stati rapiti ancora degli italiani paiono evidenti. Sono tra i pochi occidentali ancora a operare nel Paese in modo strutturato, anche se molto più defilati. L’Eni e le società italiane di sostegno come la Bonatti non hanno eguali per volume di lavoro e manodopera impiegata. Inoltre gli italiani pagano i riscatti. A differenza di americani e inglesi, che in genere rendono le cose molto più difficili. Il terzo motivo è ancora più importante: l’Italia ha un rapporto storico con la Libia, risale a prima dell’invasione del 1911. Non a caso a ogni crisi la sua popolazione guarda all’Italia. «Gli italiani non sono altro che libici che sanno nuotare», dicevano scherzosi i giovani rivoluzionari che scendevano in piazza a dimostrare contro Gheddafi nel febbraio del 2011. Guarda caso, in quello stesso periodo, anche i fedelissimi del Colonnello a Tripoli si rivolgevano con lo stesso fervore al governo Berlusconi affinché non intervenisse con la Nato. «Roma non ci può tradire come Londra e Parigi», gridavano.
Tutto questo per sostenere che il rapimento dei quattro italiani (come del resto i precedenti negli ultimi anni), pur se con una probabile matrice criminale prevalente, va inquadrato nel contesto politico locale. Diciamolo chiaramente: la Libia non c’è più. Il Paese è frazionato in una miriade di entità particolari in costante lotta tra loro per l’egemonia.
Per comodità noi giornalisti e commentatori riassumiamo che dall’anno scorso è diviso tra i «laici» che fanno capo al parlamento di Tobruk e gli islamici legati a Tripoli. Ma la realtà è molto più variegata, sfuggente, fuori controllo. E comunque ora non è strano che le due parti principali si rimpallino le responsabilità del sequestro.
Persino la televisione del Qatar, Al Jazeera, notoriamente legata al campo islamico, ieri ha fatto eco a queste polemiche riportando che gli italiani potrebbero essere nelle mani del «Jesh al Qabali», traducibile come «L’esercito delle Tribù», le milizie locali composte anche dai berberi delle montagne e i commercianti di Zuara, la città portuale prossima al terminale di Mellitah dove si stavano recando i quattro in arrivo dal confine tunisino. La ragione? Fare pressione sull’Italia in vista di un eventuale accordo per la formazione di un governo di unità nazionale mediato dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, Bernardino León. È una tesi come tante altre. Ma forse più che spiegare complica la matassa.
L’Italia infatti ultimamente si è espressa più favorevolmente del solito per il governo di Tobruk, che a sua volta è molto vicino alla milizia berbera di Zintan. Il problema è che da almeno due anni Zuara e Zintan sono in contrasto. E con i loro vari gruppi armati l’Eni e le sue partecipate – come ha scritto in un reportage il Wall Street Journal – hanno stretto pragmaticamente singoli accordi per garantirsi l’integrità degli impianti e del personale. La logica è semplice: si pagano i capi tribali, come quelli delle tribù amazigh, che in cambio mandano i loro giovani a lavorare e fare la guardia. Il blocco degli impianti diventa un danno anche per loro. Non sarebbe strano che siano stati mobilitati i «signorotti» della regione per individuare i rapitori.
Su tutto ciò incombe lo spettro dell’Isis. Da oltre un anno i suoi tagliagole si sono progressivamente impadroniti di pezzi sempre più ampi del Paese. Hanno cominciato dal deserto, la Cirenaica e Derna (dove ultimamente sono stati scacciati da milizie filo Al Qaeda), quindi sono entrati a Sirte, controllano il 60 per cento di Bengasi e mirano alle periferie di Tripoli. Il rischio più grave è che cerchino di prendere gli italiani, potrebbero «comprarli» da chi li detiene. Anche per questo motivo occorre fare in fretta. Il caos aiuta il terrorismo e confonde le speranze per un governo di unità nazionale. I rapitori lo sanno e lo useranno come argomento per alzare il prezzo.
Lorenzo Cremonesi