Un libro in gocce, 31 luglio 2013
Ritratto di Marlene Dietrich e di Leni Riefenstahl
• «È un errore fatale credere che il bello si esprima solo nella grande opera lirica, se non addirittura nelle sacre rappresentazioni, oppure soltanto in tutto ciò che una ipocrita convenzione linguistica include nel concetto di Kultur. Il bello si esprime ovunque regnino il gusto e la misura, ovunque da una profonda disciplina matura l’eleganza della libertà – foss’anche nel modo di eseguire una canzonetta» (Dolf Sternberger, pubblicista e scienziato della politica, parlando di Marlene Dietrich. (p. 7)
• «Non ero per niente erotica. Ero sfacciata» (Marlene Dietrich a Maximilian Schell in una intervista del 1983-1984) (p. 8)
• Leni Riefenstahl. Attraente “donna di ghiaccio”, cara amica di Hitler, straordinaria organizzatrice di lavori di squadra, la Riefenstahl con la regia dei suoi film documentari aveva saputo trasmettere e ricreare non solo la seduzione di massa esercitata da Führer ma anche l’incanto del movimento dei corpi nelle pure prestazioni sportive. (p. 9)
• «Adoro la bellezza del movimento fisico» (Leni Riefenstahl) (p. 15)
• La Riefenstahl in una pagina delle sue memorie fa una annotazione (…) ricordando un incontro del giugno 1938 con il Führer a casa sua scrive: «Quella sera ho avuto la sensazione che Hitler mi desiderasse come donna» (p. 17)
• «Uno psicopatico dal piede equino» (Ossietzky di Joseph Goebbels) (p. 18)
• La Dietrich decide di far domanda per la nazionalità statunitense, provocando la rottura pubblica dei rapporti tra lei e il governo tedesco. Nei locali della Associazione delle ragazze tedesche (BDM) compare una foto della Dietrich con la scritta: “Ragazze! Questa non è una donna tedesca”. (p. 19)
• «Le parti che ho interpretato non hanno nulla a che vedere con ciò che sono realmente. Identificare queste parti con la mia persona è stupido» (Marlene Dietrich) (p. 20)
• «She has sex but not particolar gender» (Ha sesso ma non un genere particolare) – come dice la famosa battuta di un amico, che si trova in ogni biografia dedicata alla diva. La Dietrich amava ripetere che preferiva “l’amore senza sesso” – qualunque cosa intendesse veramente dire con queste parole a seconda delle circostanze, dell’età e del/della partner. “Rendendo problematica l’idea che dietro la maschera ci sia una stabile identità di genere, essa può interpretare la mascolinità altrettanto facilmente della femminilità e manipolare entrambe le immagini” (p. 20)
• Nel maggio 1960 a Berlino, in occasione della conferenza stampa alla vigilia della sua controversa tournée canora, l’attrice assume un atteggiamento che fa scrivere a una giornalista presente: «Freddo erotismo, un viso indecifrabile, una leggendaria eleganza, un nimbo con gambe nervose, un passato lungo. Lascivia, demone erotico dalla testa ai piedi? No. C’è qualcosa di monacale in questo rigore» (p. 21)
• Il film L’angelo azzurro (…) girato negli studi di Berlino Babelsberg tra il 4 novembre 1929 e il 22 gennaio 1930. (…) Carl von Ossietzky sulla “Weltbühne” del 29 aprile 1930 ha espresso un giudizio penetrante che non ha perso di attualità, anche nella sua componente enigmatica. (…) «L’evento eccezionale rimane solo Marlene Dietrich. Dio sa se questa donna riuscirà a fare una cosa simile una seconda volta. Quel viso splendidamente lascivo, quella figura ben piantata sulle gambe, con le logore mutandine di seta e l’inverosimile giarrettiera nera appartengono alle poche vere grandi impressioni cinematografiche. Qui e solo qui c’è quello spirito ironico che giustifica la versione cinematografica di un romanzo così immateriale come il professor Unrat. Solo la Dietrich in questo film decide lo spirito di Heinrich Mann contro Heinrich Mann». (p. 26)
• L’angelo azzurro venne girato in versione tedesca e inglese, con due finali differenti: l’edizione del 1947, considerata la copia più completa, non termina con la morte di Rath ma con un ritorno della macchina da presa sul palcoscenico dove si esibisce Lola, forse per ridare centralità all’aspetto di commedia musicale. Ma non meno significativo è che la versione inglese nel suo insieme presenti alcune varianti o tagli. (p. 31)
• La Dietrich nega di avere mai avuto relazioni con donne quando invece era noto il suo legame con Claire Waldoff, dalla quale apprendeva lezioni di tecnica cabarettistica: voce sommessa, mormorante, accompagnata da gesti ben misurati. (p. 37)
• Primo incontro tra la Dietrich e Sternberg. Nelle sue memorie il regista scrive di averla vista “per caso” nella rivista Due cravatte. (…) Negli ambienti della rivista si era diffusa in un baleno la notizia che in sala sarebbe stato presente il famoso regista hollywoodiano. Maria Riva conferma che la madre non solo era informata delle presenza nel pubblico di un “importantissimo regista americano” che avrebbe diretto una pellicola sonora dell’UFA con Jannings, ma sapeva anche che stava cercando “la puttana del film” per una storia tratta da un libro di Heinrich Mann, che Marlene diceva di conoscere giudicandolo peraltro “orribile”. Ma il dettaglio più importante è un altro. Maria avrebbe sentito suo padre Rudi Sieber dire alla moglie Marlene: “Sii molto distaccata stasera nella tua scena. Tutte le altre cercheranno di attirare l’attenzione del famoso regista americano. Se darai l’impressione di non preoccuparti, ti farai sicuramente notare”. (pp. 39-40)
• Marlene Dietrich: «Prima che mi prendesse per mano Sternberg ero scombussolata, non avevo nemmeno coscienza del compito che mi attendeva. Non ero “nessuno” ma i poteri misteriosi del creatore infusero in quel niente la vita. Vi prego di non attribuirmi alcun merito per i personaggi interpretati nei suoi film. Ero soltanto uno strumento obbediente nella tavolozza infinitamente ricca delle sue idee e delle sue immagini. Vedeva la magia». A questo punto annota le raccomandazioni che le aveva fatto: «Voglio che vista di fronte lei faccia pensare a un quadro di Félicien Rops e vista di spalle a un Toulouse-Lautrec. Questa fu per me un’idea guida». (p. 42)
• Se dobbiamo dare credito ai suoi ricordi [di Maria, la figlia, ndr], in privato e in famiglia la madre parla de L’angelo azzurro in lavorazione come di un “film disgustoso” dove lei deve interpretare il ruolo di “una sgualdrina”. Contemporaneamente però è piena di ammirazione per il regista. “È un film volgare, ma mister von Sternberg è un dio”. (…) Nelle memorie infatti la Dietrich scrive: “Io credevo che L’angelo azzurro sarebbe stato un fiasco. Lo ritenevo infatti un film banale e volgare, due aggettivi per me molto differenti, ma che qui si completavano alla perfezione. La banalità si raccorda perfettamente con la volgarità degli altri personaggi. Sul set giravano contemporaneamente quattro macchine da presa, tutte puntate (almeno così mi pareva) sull’inforcatura delle mie gambe (lo dico con il più profondo disgusto). Ogni volta che toccava a me, doveva alzare una gamba, la sinistra o la destra, e le macchine non cessavano di concentrarsi sul mio corpo”. (pp. 43-44)
• Nelle sue memorie [la Dietrich] scrive: «Quando lessi la sceneggiatura di Ernst Lubitsch in Desiderio (1936) rimasi inorridita: il film cominciava con un primo piano delle mie gambe. Eppure per me hanno sempre avuto una funzione puramente utilitaria: mi permettono di camminare». (p. 44)
• Marlene Dietrich chiamava sprezzantemente Leni Riefenstahl “la nazista”. (p. 44)
• La Riefenstahl assicura che tra lei e Sternberg c’è stato soltanto un intenso rapporto di amicizia (…) o meglio - precisa con una punta di malizia – Sternberg era certamente innamorato di lei (la chiamava Du-Du e lei replicava con Jo) ma non era un amore corrisposto perché in quel momento era ancora molto legata ad Hans Schneeberger. (p. 46)
• Leni Riefenstahl intraprese con successo la carriera della danzatrice solista. Non si esibisce con le scarpette e il tutù convenzionali bensì a piedi nudi con vesti leggere, con una gestualità che imita stili d’avanguardia (p. 48)
• Nel 1923, nel corso di uno spettacolo, ha un incidente al ginocchio che la costrinse a rinunciare al suo sogno di fare la danzatrice di professione. (…) Decide infatti di intraprendere la carriera di attrice cinematografica (p. 49)
• Il regista Fanck a un giornale: «Quando vidi Leni Riefenstahl, la mia prima impressione è stata: questa è la figlia della natura, non un’attrice, non mera “interprete”» (p. 50)
• Primo incontro di Leni Riefenstahl con Adolf Hitler. Tutto inizia alla fine di febbraio del 1932 (…) quando la Riefenstahl va ad assistere a un comizio di Hitler al palazzo dello sport di Berlino. (…) Parla addirittura di “visione apocalittica”. “Ero come paralizzata. Sebbene non capissi molto nel discorso, agì su di me affascinandomi. Un fuoco tambureggiante si rovesciò sugli ascoltatori e sentii che ne erano presi. Non c’è dubbio che io stessa ero contagiata”. (p. 56)
• Proprio in riva al mare avviene l’incontro che la Riefenstahl descrive (…) [con] Hilter (…). Dopo averle confermato di aver visto tutti i suoi film, le confessa che “l’impressione più forte su di me l’ha prodotta il Suo film Das blaue Licht [La bella maledetta] anche perché è inusuale che una giovane donna sappia imporsi contro le resistenze e il gusto dell’industria cinematografica”. (…) “Quando arriveremo al potere Lei deve fare i miei film”. La reazione della sua interlocutrice è negativa. Afferma di non poter fare un film per commissione, sotto pena di non essere più creativa. Nel caso specifico poi aggiunge: “Non sono per niente interessata alla politica. Non potrei neppure mai diventare membro del Suo partito”. Pur colto di sorpresa, Hitler risponde: “Non costringerei nessuno a entrare nel mio partito. Quando lei diventerà vecchia e matura potrebbe forse capire le mie idee”. (p. 58)
• La conversazione riprende dopo cena, lungo il mare. (…) Leni Riefenstahl: «Era buio. Camminavamo in silenzio l’una accanto all’altro. Dopo una lunga pausa in piedi, mi guardò a lungo, lentamente mi osò le braccia attorno e mi attirò a lui. Ero stupefatta, non mi ero augurata questo mutamento della situazione. Mi fissò agitato. Quando si rese conto che mi stavo difendendo, mi lasciò subito. Si discostò un po’, poi lo vidi alzare le mani e dire giurando: “Non devo amare nessuna donna, finché non ho compiuto il mio lavoro”. Ero profondamente colpita. Tornammo all’albergo senza scambiarci una parola. Lì mi auguro con un certo distacco la buonanotte. Sentii d’averlo ferito e mi pentii troppo tardi di essere venuta». (p. 59)
• Sternberg a Leni Riefenstahl: «Hitler è un fenomeno – peccato che io sia ebreo e lui un antisemita» (p. 61)
• (…) Le ballerine (le famose Tiller Girls) che si esibiscono con movimenti sincronizzati come macchine danzanti, con disciplina e precisione quasi militari come in un unico corpo. In proposito le definizioni e le esagerazioni si sprecano: “prodotto delle fabbriche americane”, “composizioni di militarismo ed erotismo”, ma per altri osservatori quelli delle ballerine sono “corpi senza sesso in costume da bagno che esistono unicamente come parti di una massa”. (p. 83)
• Leni Riefenstahl. È bella, sportiva, moderna, indipendente, energica, disinvolta in amore. Pratica appassionatamente la danza, ma questa non ha nulla a che vedere con i balli di moda. (…) la cultura della montagna e la dimensione sportiva che le è propria. “Sì, amo le montagne, le amo appassionatamente”, dichiara la Riefenstahl. “In esse trovo i simboli della lotta, i pericoli, la resistenza, vedo le pareti da scalare con passione, il sottile inganno delle cornici ghiacciate coperte di neve. Vedo il verde selvaggio romantico delle forre ricche d’acqua, l’incanto dei calmi, freddi aghetti, la grande, grande solitudine e la continua lotta. Questa è la forte, ardente vita e la vita è bella”. Sono parole scritte sul crinale del 1933, quando era già simpatizzante del nazionalsocialismo. (p. 87)
• L’invito della Paramount ad andare a Hollywood arriva alla Dietrich alla fine di gennaio 1930. (…) L’influente magazine “Variety”, annunciando che la casa cinematografica ha stipulato un contratto di sei mesi con l’attrice berlinese scoperta da Sternberg, la presenta come “a very original type, full of European sex appeal”. (pp. 88-89)
• Sternberg e la Dietrich. Un altro riferimento letterario che i due usano tra loro è il nome di Svengali con cui Marlene chiama il regista che la ricambia con Trilby (seguendo il romanzo di George du Maurier) (p. 91)
• Marlene Dietrich. Appena messo piede in America, iniziata la lavorazione di Marocco, scrive al marito Rudi, rimasto a Berlino, parlando di Sternberg in questi termini: “Io sono un prodotto, il suo prodotto, sono interamente opera sua. Mi scava le guance con le ombre, mi ingrandisce gli occhi e io resto affascinata dal volto che appare sullo schermo; ogni giorno attendo con ansia i rushes per vedere come apparirà la sua creatura”. (p. 93)
• In tutte le biografie di Sternberg è riportata la sua perentoria affermazione: “Marlene non è Marlene. Marlene sono io. Lei lo sa meglio di ogni altro” (p. 103)
• «Sono fatta per l’amore dalla testa ai piedi» (Ich bin von Kopf bis Fuss auf Liebe eingestellt) è la canzone simbolo de L’angelo azzurro. (p. 107)
• «L’amicizia è affine all’amore materno, all’amore fraterno, all’amore eterno, all’amore puro, sognato, desiderato; non è l’amore sotto l’apparenza dell’amore, è un sentimento puro che non è mai esigente ed è quindi eterno. L’amicizia ha unito più persone dell’amore. È preziosa e sacra. Unisce i soldati in guerra, cementa coloro che resistono, ci infiamma tutti, anche quando i nostri fini sono oscuri. Per me l’amicizia è il più prezioso dei beni» (p. 108)
• Marlene Dietrich. Parlando di amicizia erotica pensiamo a Erich Remarque e a Ernest Hemingway, due uomini che hanno avuto con la Dietrich un rapporto speciale di amore e di intensa amicizia senza arrivare al rapporto sessuale (Hemingway) o senza consumarlo pienamente a causa di forme di impotenza (Remarque). (…) Quando si incontrano Remarque e la Dietrich (…) simpatizzano subito sin dal primo approccio al Lido di Venezia una sera di settembre del 1937. Marlene è a cena con Sternberg. Al loro tavolo si avvicina un uomo affascinante che si presenta come Erich Maria Remarque. Di questa scena abbiamo due versioni che meritano di essere accostate: quella della Dietrich nella sua autobiografia e quella della figlia Maria che si trovava con la madre a Venezia. Marlene scrive di essere “quasi svenuta” dall’emozione di incontrare uno scrittore così famoso. Poi prosegue: “Lo incontrai di nuovo il mattino dopo sulla spiaggia. Tenevo sotto il braccio un’opera di Rainer Maria Rielke e cercavo un posto dove mettermi a leggere al sole. Remarque si avvicinò. Vide il titolo del libro e disse, non senza sarcasmo: “Vedo che legge dei buoni scrittori”. Reagendo all’ironia ribattei: “Vuole che le reciti seduta stante qualche poesia?”. I suoi occhi eternamente scettici si posarono su di me: non ci credeva. Un’attrice del cinema che leggeva? Rimase stupefatto quando recitai Il puma, Leda, Giorni d’autunno, Infanzia, le mie poesie preferite. “Andiamo a parlare altrove”, mi disse. Lo seguii. Lo seguii fino a Parigi e da allora fui io ad ascoltarlo”.
• Parecchio diversa è la versione di Maria, soprattutto su un dettaglio che sarà importante nella storia che ne sarebbe seguita. Riporta le parole che le avrebbe riferito direttamente sua madre: “Io e Remarque parlammo fino all’alba. Era meraviglioso. Poi mi guardò e disse: “Devo confessarlo… sono impotente”. Io lo guardai e risposi: “Oh, è magnifico. Che sollievo!”. E rivolta alla figlia: “Tu sai quanto detesto fare l’amore. Ero felice! Voleva dire che avremmo potuto limitarci a parlare, a dormire e ad amarci piacevolmente”. (…) Remarque (…) il 1° novembre 1938 annota: “Forse è vero che per le donne la tenerezza è più importante e frequente del sesso. Certamente è così per il Puma [nomignolo che usa per designare Marlene]. (…) Nel novembre 1940 i loro rapporti si deteriorano. Nel corso di un party in casa Sternberg ha luogo un pesante alterco. Marlene lo rimprovera che quando vuol dormire con lui è ubriaco e impotente. Remarque ribatte che è così quando si devono fare discorsi su preservativi con qualcuno che sta a letto come un pesce. Marlene lo accusa di averla chiamata puttana e lui risponde che voleva soltanto osservare che le puttane danno sempre qualcosa per ciò che ricevono. Marlene allora fuori di sé lo insulta dicendo che è appena uscito dalle fogne di Osnabrück (città natale dello scrittore) al che lui ribatte sarcastico: “Ecco ritornata la figlia maggiore Dietrich”. (…) Quando apprende da Remaque che lui ha stretto un legame amoroso con la sua concorrente Greta Garbo, “sta tre ore al telefono”, annota il romanziere: “Dice che la Garbo ha la sifilide e un cancro al petto. Uno sfogo di gelosia, rabbia, lacrime e dichiarazioni di quanto abbia fatto per me e come mi abbia amato”. (…) L’infedeltà più grave di Marlene nei confronti di Remarque è l’innamoramento per Jean Gabin (…). Lui la chiama Ma Grande. (…) Gabin si sposerà presto e interromperà ogni contatto con la Dietrich. Non sorprende che in questa ennesima fase negativa Marlene cerchi di riavvicinarsi a Remarque. «Ti scrivo perché improvvisamente provo una acuta nostalgia – non quella che ho di solito. Forse ho bisogno di panini con salsicce di fegato, la consolazione degli afflitti – e salsicce dell’anima. Sono sottosopra, vuota e senza scopo. Non ho più nessuno. Mi sono battuta (non sempre con i metodi più giusti) e menato colpi, e adesso me ne sto qui libera, sola e abbandonata. Ho nostalgia di Alfredo [uno degli pseudonimi usati per chiamare Remarque] che una volta aveva scritto “penso che l’amore è il miracolo per cui due persone insieme vivono più facilmente che non una da sola”. Anch’io la penso così. Il tuo Puma a pezzi»(pp. 109-114).
• Completamente diverso è il legame di Marlene con Ernest Hemingway. “L’ho amato immediatamente. Non ho mai smesso di amarlo. L’ho amato platonicamente”; scrive nelle sue memorie. L’ha conosciuto in una traversata transatlantica sull’Île de France, nel 1934, in modo quasi casuale. (…) Hemingway ha tracciato un ritratto della Dietrich (nel 1952) (…): “È coraggiosa, bella, fedele, buona e generosa e in sua compagnia non ci si annoia mai. È incantevole al mattino nella sua divisa da G.I. come la sera in dècolletè o sullo schermo. Il suo senso della vita che è insieme onesto, comico e tragico, le vieta di essere veramente felice a meno che non ami. Quando ama, può scherzarci sopra ma con umorismo macabro”. Citatissima è anche la sua battuta: “Se non avesse altro che la sua voce, con essa Marlene potrebbe spezzarti il cuore”. (…) “L’amore tra lui e me”, ha detto a Maximilian Schell, “non so come lo si possa chiamare, ma non aveva nulla a che fare con l’erotico o con quello che si può chiamare sessuale. Hemingway era oltre il sessuale”. (…) Le lettere (…) quelle di lui sono firmate “Papà” e indirizzate “Alla mia cara Kraut” (l’epiteto ironico-affettuoso che ha sempre usato nei riguardi della Dietrich). (…) Siamo stati “vittime di una passione non sincronizzata”, ha detto lo scrittore, “le volte in cui io non avevo voglia, la Kraut era profondamente immersa in tribolazioni romantiche e quando la Dietrich nuotava in superficie con quei meravigliosi occhi penetranti, io ero in immersione” (p. 116)
• Il suo legame con Mercedes de Acosta, un’autrice teatrale e di copioni cinematografici, femminista militante e fondatrice di un noto vivace gruppo di lesbiche a Hollywood. La de Acosta incontra la Dietrich nel corso della lavorazione di Marocco e ne è infatuata. Le manda rose e violette e dozzine di rose e garofani magari più volte al giorno. La Dietrich da parte sua le fa sapere: “Tu qui sei il primo uomo dal quale mi sento attratta. Vorrei chiederti se posso cucinare per te”. (p. 117)
• Leni Riefenstahl definì una pura sciocchezza l’opinione diffusa in America che lei sia l’amante di Hitler (oltretutto “non sono il suo tipo e lui non è il mio”) (p. 124)
• 1938 (…) in giugno c’è la “visita inattesa” di Hitler a casa sua [di Leni Riefenstahl] (…). Ecco alcune frasi tra le più significative pronunciate da lui in quella occasione: “È raro che possa prendermi un po’ di tempo e che mi sia consentito essere un uomo privato per alcune ore. So che anche Lei è un animale da lavoro e non ha quasi una vita privata. Persone come Lei saranno per lo più sole. Non sarà facile per Lei”. “Non conosco nessuna donna che lavori con coscienza sociale e così resa dal suo lavoro come Lei – in modo identico sono anch’io dedicato al mio lavoro”. (…) la Riefenstahl allora gli chiede direttamente: “E la sua vita privata?”. “Da quando mi sono deciso a diventare politco”, risponde Hitler, “ho rinunciato alla mia vita privata”. “Le è costato molto?” “Moltissimo, in particolare quando incontro belle donne che vorrei volentieri intorno a me. Ma io non sono il tipo cui piacciono brevi avventure. Quando mi infiammo, i miei sentimenti sono profondi e appassionati – come potrei adempiere ai miei doveri verso la Germania? Quanto dovrei deludere ogni donna, anche se l’amassi. La mia intenzione è creare una Germania forte e indipendente – un bastione contro il comunismo – e questo è possibile soltanto durante il corso della mia vita. Dopo di me non verrà nessuno che saprà farlo”. (…) La conversazione riprende con una domanda apparentemente secondaria – È sempre stato vegetariano? – che porta invece su un argomento privatissimo e delicato: l’amore di Hitler per la nipote Geli (che anni prima si era tolta la vita in circostanze mai chiarite). Confessa apertamente di averla amata molto: “Credevo di non poter più vivere senza di lei. Quando l’ho perduta, non ho più mangiato nulla per giorni; da allora il mio stomaco rifiuta ogni tipo di carne”. Il discorso prosegue con altre confessioni: “Le mie storie d’amore sono state per lo più infelici. Le donne erano o sposate o volevano essere sposate”. Nel corso dell’intero colloquio non esce mai il nome di Eva Braun, in compenso Hilter dichiara di essere molto contrariato quando le donne cercano di legarlo a loro con le minacce di suicidio. Ripete che avrebbe sposato soltanto Geli. “Sarei assolutamente inadatto per il matrimonio, non potrei infatti essere fedele. Capisco i grandi uomini che hanno un’amante”. (…) “Quella sera”, conclude, “ho avuto la sensazione che Hitler mi desiderasse come donna”. (pp. 125-127)
• La Riefenstahl, accantonando ogni altro progetto, è decisa a dare il suo contributo alla guerra nella forma che le è più congeniale: con la macchina da presa. (…) In pochi giorni mette in piedi un Film-Sondergruppe Riefenstahl che intende seguire il Führer per filmarlo nei suoi spostamenti sul fronte di guerra polacco. Lei stessa si inventa una divisa-fantasia che non manca di sollevare diverti commenti da parte dei militari che hanno a che fare con lei. Il generale Erich von Manstein (…) ha lasciato nei suoi ricordi una divertita descrizione: «Aveva l’aspetto carino e audace di una elegante partigiana, che si era procurata il suo abito il rue de Rivoli a Parigi. Portava una specie di tunica, calzoni e morbidi stivali. Dal cinturone di pelle, che cingeva i suoi fianchi, pendeva una pistola. Il suo armamento per lo scontro ravvicinato era completato da un coltello infilato nel gambale alla maniera bavarese. Devo ammettere che il mio staff era un po’ perplesso davanti a questa singolare comparsa». (pp. 132-133)
• Marlene Dietrich all’amico regista Billy Wilder: «Non si dovrebbe mai sottovalutare la forza di persuasione di una donna – soprattutto a letto» (p. 139)
1937 (…) il 6 marzo la Dietrich inoltra la domanda per ottenere la cittadinanza americana (con l’occasione si toglie tre anni di età nella dichiarazione delle proprie generalità). (p. 145)
• Marlene Dietrich a Erich Maria Remarque: «L’unica ragione per cui Hitler continua a mandarmi i suoi pezzi grossi per convincermi a tornare è perché mi ha visto in reggicalze ne L’angelo azzurro e vuole infilarsi in quelle mutandine di pizzo» (p. 148)
• I versi della canzone Lili Marleen scritti da Hans Leip risalgono nientemeno che al 1915 e la musica è del 1938 a opera di Norbert Schultze, nazista convinto. (…) È un dettaglio curioso e importante per Lili Marleen che avrebbe guadagnato la fama di canzone sgradita al regime perché patentemente pacifista. (…) Trasmessa per la prima volta nell’aprile 1941 dalla radio militare di Belgrado, interpretata da Lale Andersen, registra immediatamente uno straordinario successo tra le truppe tedesche in Russia e in Africa (…). La figlia Maria ha scritto una pagina divertente e credibile: “Era il ruolo migliore che le fosse mai capitato, quello che amava di più e che le avrebbe dato il successo più grande. Per il suo eroico coraggio ottenne allori, medaglie, citazioni di merito, ammirazione e rispetto. Per il resto la Dietrich era così affascinante nella sua uniforme inventata che ben presto i giubbotti alla Eisenhower con i relativi nastrini, pantaloni confezionati su misura, gli stivali da combattimento e l’elmetto furono accettati da tutti. Lavorò per tutti, dai soldatini di leva ai generali a cinque stelle, si divertì pazzamente a fare “la vera eroina” e si guadagnò anche le decorazioni. Per dirla con le sue parole: “Non sono mai stata così felice come nell’esercito”. La prussiana era nel suo elemento, la sua anima tedesca viveva la tragedia della guerra in tutto il suo macabro sentimentalismo…”. (p. 153)
• Entrata in Germania al seguito delle truppe combattenti (…) nel 1945 (…) Nel settembre a Berlino (…) la Dietrich non può nascondere la sua angoscia davanti alle macerie della capitale e la condizione disperata delle popolazione. In una lettera del 27 settembre al marito Rudi scrive: “Da quando sono arrivata qui, mangio soltanto pane e sembro una vecchia gallina con il collo grinzoso, buona soltanto per fare il brodo. La nostra casa al n. 54 è ancora in piedi e, nonostante i buchi provocati dalle bombe, sul nostro balcone ci sono i gerani rossi. Della casa al n. 135 restano soltanto i muri esterni. Il balcone è pericolante e Mutti ogni giorno passa di lì, si ferma a lungo a osservare le macerie e piange. La Bahnhof allo Zoo, Joachimstaler, Tauentzienstrasse – tutto è crollato. La Gedächtniskirche è distrutta. Il negozio dei Felsing in Unter den Linden è ancora in piedi. Hanno rubato tutti gli orologi e forzato la cassaforte con la fiamma ossidrica. Ora Mutti ripara gli orologi e le mie vecchie perle di vetro stanno sul banco in una bacheca. La maschera bronzea del mio volto è intatta. Il grande orologio esterno è stato rubato e Mutti ne ha dipinto uno di legno”. (p. 154)
• La tournèe musicale del maggio 1960 è un episodio importante per capire ulteriormente il rapporto tra l’attrice e la sua patria. Nelle memorie c’è un accenno preciso: “In Germania tutto sarebbe potuto essere meraviglioso ma ero sempre turbata dalla miscela di amore e di odio che vi incontravo. Nel 1960 fui boicottata in Renania e mi sputarono in faccia, dopo di che dovetti fare egualmente lo spettacolo e riuscii a cavarmela con l’aiuto di Burt Bacharach [il suo accompagnatore e arrangiatore musicale] e della mia testardaggine tedesca” (p. 162)
• Molti tedeschi non le perdonavano di essere tornata a Berlino in divisa americana e di aver sfilato nel 1954 a Parigi sugli Champs-Èlysèes a fianco dei resistenti francesi e dei “nemici della Germania”. A questo malevolo atteggiamento la Dietrich risponde di punta, quando si presenta alla conferenza stampa del 2 maggio 1960 all’Hotel Hilton di Berlino. Elegantissima, distaccata, seducente come sempre, porta sul vestito un solo piccolo visibile segno, quello della Legion d’onore francese. (pp. 163-164)
• Ricevendo a casa sua a New York il caporedattore di “Die Welt” gli aveva anticipato: “Solo una cosa non voglio e non farò: non mi presenterò a una conferenza stampa come a una specie di tribunale. Nessun processo di Norimberga, per favore. Non ho nulla da farmi perdonare e non mi farò perdonare per nulla”. (p. 164).
• Jean Amèry ha scritto un breve denso saggio, Die Künstlerin Dietrich und die öffentliche Sache (“L’artista Dietrich e la questione pubblica”). (…) Amery riporta quindi le parole che l’artista avrebbe pronunciato in risposta a chi le chiedeva se si era “commossa” rivedendo Berlino: “Non un solo minuto. Quando un emigrante torna nella patria che ha lasciato per cercare altrove la sua fortuna, posso capire che sia commosso. Ma questo non era il mio caso: io ho lasciato la mia patria perché per me era uno scandalo”. (…) Anche nell’intervista a Maximilian Schell la Dietrich riconferma un ricordo fosco della sua visita del 1960: “È stato terribile. Hanno portato bombe nel teatro, non ne volevano sapere di me, erano cattivi. È odio-amore, non è vero? Hanno detto che me ne sono andata via e non li volevo più, i tedeschi. Mi amavano e mi odiavano”. L’intervistatore allora sposta il discorso cronologicamente indietro, alla decisione della Dietrich di impegnarsi concretamente con le truppe sul campo contro la Germania. “È stata una decisione coraggiosa,” dice Schell. “No”, replica la Dietrich, “il mio cuore, la mia causa era fare finire la guerra il più presto possibile. Noi non capivamo niente di politica. Ma naturalmente eravamo antinazisti. Sapevamo dei campi di concentramento, dei bambini gasati e tutto il resto. Allora è molto facile decidersi. Quando uno viene a sapere che là uccidono bambini e centinaia di migliaia di uomini, occorre un grande coraggio per decidere da che parte stare?” (…) ha un’idea molto chiara e netta dei suoi compatrioti “perché anch’io sono tedesca. Quelli volevano un Führer e l’hanno avuto, no? Sono così i tedeschi”. “Volevamo uno che ci dicesse che cosa fare. E quando è arrivato quell’orribile Hitler, hanno detto: ‘Ah! Splendido questo sì è un Führer. Qualcuno che mi dice: fa’ così e così, fa’ questo, fa’ quello’. Così sono stata educata. Ma con Hitler non ci sono stata”. (…) in altre circostanze e nella sua ultima intervista (“Der Spiegel”, del 17 giugno 1991) alla domanda su perché fosse stata antifascista ha usato un’espressione altrettanto semplice eppure convincente: “Aus Anstandsgefühl”, che possiamo tradurre “Per un senso di decenza, decoro e dignità”. (pp. 164-166)
• Max Reinhardt, il grande imprenditore culturale e teatrale (…) La Dietrich non nasconde la sua delusione per non essere stata accolta ufficialmente nella Scuola di teatro del maestro (…) lei, diventata diva internazionale, ha oscurato la fama del maestro. “Max Reinhardtn amava sostenere di avermi “scoperta” ma purtroppo è falso. Io non avevo qualità particolari e lo sapevo” (p. 171)
• Marie Magdalene, nata il 27 dicembre 1901 a Berlino Schöneberg in una famiglia della piccola borghesia, cresce nel culto dell’autorità e della cultura dell’ordine di stile guglielmino. “Fui educata sotto l’alta autorità di Immanuel Kant, dell’imperativo categorico e dei suoi insegnamenti. Si richiedeva la logica a ogni istante. Quando le mie deduzioni erano illogiche, mi escludevano dalla conversazione. Fino ad oggi non ho mai potuto sottrarmi a questa ferrea regola e ho preteso che venisse osservata anche da coloro che mi circondavano” (…) frequenta la scuola senza entusiasmo (…) le rimarrà sempre il piacere di leggere e di esibire i classici (…). L’ossessione per il dovere e la disciplina nelle memorie di Marlene ha come referente la madre Wihelmina Elisabeth Josephine Felsing, donna di estrazione piccolo borghese relativamente agiata (come abbiamo detto, la famiglia possiede un negozio di gioielli e orologeria in Unter den Linden). Ma dietro l’apparenza di una vita familiare tranquilla la donna vive una condizione di solitudine a causa di un matrimonio infelice con l’ufficiale di polizia Louis Erich Otto Dietrich, un marito dal comportamento tutt’altro che esemplare, che alla fine si riduce a vivere in casa separato dalla moglie. (…) Lena (così era chiamata in casa Maria Magdalene anche dopo che aveva inventato per sé, appena tredicenne, il nuovo nome di Marlene) ha una sorella maggiore di due anni, Elisabeth/Liesel. (…) Nel 1912 la zia Vally regala a Lena/Marlene un diario rilegato in marocchino rosso con fregi dorati sul quale lei scrive le confidenze più segrete di adolescente, spesso con un linguaggio colorito e sarcastico, diverso dal tedesco formale parlato in casa. (…) Sconcertante è un’annotazione del giugno 1916, all’annuncio delle morte in guerra del patrigno e di altri conoscenti: “Ora sono morti tutti… Adesso qui ci si annoia terribilmente. L’unico ragazzo interessante che incontro al passeggio è Schmidt”. (…) Un tema ricorrente per i primi anni di scuola è quello della solitudine, compensata dall’amicizia con l’insegnante di francese Marguerite Breguand. Lo scoppio della guerra nel 1914 è un duro colpo perché le separa dalla insegnante da cui aveva imparato ad amare la Francia e la “dolce e familiare lingua francese”. Lei continua a usare il francese anche a scuola durante la guerra pagando persino una multa per aver pronunciato parole proibite perché diventate la lingua del nemico. (…) Su questo sfondo uno dei motivi molto insistiti nelle memorie è il silenzio che in famiglia viene imposto ai bambini. “I bambini sono condannati a priori al silenzio e alla solitudine. Non hanno il diritto di dire che le loro angosce li avvicinano a coloro che soffrono ogni giorno al fronte”. “Non fare domande. Fa’ i compiti. Esegui il tuo lavoro quotidiano. E non dimenticare la musica, alla fine della giornata” è il ritornello della madre che si è talmente impresso in Marlene fa farlo risuonare in seguito anche nelle orecchie della figlia Maria. Quanto al repertorio della musica classica, “mia madre”, scrive, “mi aiutava a imparare un valzer di Chopin che mi permetteva di suonare per ricompensare la mia applicazione a Bach e a Händel. A volte ci scambiavamo di posto e lei suonava…”. Il ritratto della madre è straordinariamente positivo. “Le convenzioni più profonde non le venivano dall’esperienza ma dall’istinto. (…) Era di una bellezza straordinaria (…) possedeva una nobiltà autentica: quella della gente della sua razza. Prima di tutto il dovere, gli obblighi quotidiani”. Ma non meno interessante è l’insistenza con la quale la madre imponeva la sua autorità protettiva: “Ogni giorno mi faceva ripetere una dozzina di volte: ‘Quando sono con mia madre non può succedermi niente’”. In questo contesto emerge un altro tratto caratteristico della figura della madre: il suo invito costante alla figlia a controllare l’emotività e a essere pudica. “Tenere a freno le mie emozioni era diventato per me una seconda natura, ancora prima che mia madre decidesse di allungare le mie gonne per coprirmi le ginocchia”. “La negligenza era sinonimo di peccato: negligenza del corpo, negligenza dei sentimenti, delle emozioni, negligenza nella compassione. Per ciò che riguardava il corpo si chiamava stupidità; per le emozioni, indecenza. Quando non peccavamo né di stupidità né di indecenza, si abbatteva su di noi il verdetto: ‘questo non si fa!’ pronunciato in un tono che non ammetteva repliche”. (…) 2 maggio 1919: “Sono innamorata. Lo so da qualche giorno ma non so se sono veramente felice. Perché cominciare ad amare? Tanto non durerà. E allora il mio cuore mi rattrista ancora di più. Sarebbe meraviglioso godere il presente senza pensare al futuro. Mi hanno detto che non dimostro abbastanza orgoglio, abbastanza ritegno quando amo qualcuno. Questo diario è molto sentimentale: solo quando sono triste scrivo. Ma non è così. Forse un giorno questo diario parlerà nuovamente di felicità”. (…) La madre (…) decide di chiuderla in collegio (…) la scelta del collegio è caduta su un educandato di Weimar, “la città di Goethe, il mio idolo”. (…) Marlene, insieme agli studi di violino, prosegue la sua disinvolta vita sentimentale e sessuale arrivando a sedurre o a lasciarsi sedurre dal suo maestro di violino. (…) Poi del tutto inaspettatamente la colpisce una seria infiammazione alla mano (una tendinite) che interrompe ogni prospettiva di futuro professionale con il violino. È la svolta decisiva nella vita di Marlene. “Decisi di diventare attrice, perché il teatro era il solo luogo dove fosse possibile recitare bei testi e bei versi come quelli di Rielke, che mi spezzavano il cuore e nello stesso tempo mi ridavano coraggio”, scrive nella sua autobiografia. (…) Maria Riva (…): “incarnava ciò che tutti sognavano di essere: un perfetto ibrido fra i sessi”. (…)Per Marlene sono anni duri appena addolciti dal matrimonio nel maggio 1923 e dalla nascita nel dicembre 1924 della figlia Maria. (…) Rudolf Sieber (Rudi), che Marlene sposa il 17 maggio 1923 nel Rathaus di Berlino Friedenau e poi nella Gedächtniskirche nella Kurfürstendamm. (…) Finito ben presto ogni rapporto sessuale tra i due – con la nascita della figlia Maria – il loro legame prende la forma di reciproco sostegno e stima, pur segnato da un forte e crescente squilibrio. Quando Marlene diventa la grandissima diva internazionale, Rudi è al suo fianco servizievole e discreto a seconda delle esigenze della moglie. Pur rimanendo sempre ufficialmente l’unico marito della Dietrich, Rudi ha una relazione stabile sin dai tempi di Berlino con Tamara Matul (Tami), una donna di origine russa che si aggrega di fatto al clan familiare Dietrich affezionandosi a Maria di cui diventa più che una affettuosa governante e amica. (…) (pp. 173-183)
• Viso e gambe a parte, Marlene non aveva un bel corpo; in particolare aveva «seni orribili penduli e flaccidi. I reggiseni e i “modellatori” segreti furono i capi di vestiario più importanti. Quando vennero ideati i suoi “modellatori” – il segreto meglio custodito della leggenda Dietrich – lei poté rilassarsi e apparire perfetta e “nuda” ogni volta che lo desiderava». Il famoso vestito “fatto di niente” che avrebbe suscitato tanto clamore nelle esibizioni musicali degli anni sessanta aveva alle spalle una lunga tradizione del suo modo di mostrarsi in pubblico. (p. 193)
• Alla descrizione puntigliosa e dettagliata della vestizione della madre-diva la figlia Maria fa seguire un’altra cruda osservazione: “Poiché era un vero soldato ben addestrato, lo schema delle sue interpretazioni non cambiava mai. Anche quando era sbronza, si poteva regolare il cronometro sul momento in cui avrebbe alzato il braccio o fatto una pausa particolare o un silenzio calcolato, un movimento della testa. Grazie alla sua incredibile disciplina continuò a ripetere la sua performance come fosse una fotocopia sera dopo sera, anno dopo anno” (p. 193)
• Marlene Dietrich a Maximilian Schell: «Non sono stata per niente erotica, ma spudorata». (…) L’aggettivo schnoddring da lei usato, equivale a “sfacciata”, “impertinente”, ma può significare semplicemente “distaccata”, “fredda”, “ironica” nell’esercizio dell’arte della seduzione. (p. 194)
Notizie tratte da: Gian Enrico Rusconi, Marlene e Leni. Seduzione, cinema e politica, Feltrinelli 2013, pp. 208, 16 euro.