il Giornale, 20 luglio 2015
Ogni ora in Italia quattro negozi tirano giù la saracinesca. Sono più di 10.600 da gennaio ad aprile. La colpa tasse, consumi fermi, ma anche di internet e app Così cambiano le nostre città
Ricordatevi del bar dove avete fatto colazione questa mattina, tenete bene a mente il benzinaio dove vi siete fermati prima di partire per il weekend. Perché la prossima volta che ci passerete davanti, chissà, al loro posto troverete una saracinesca abbassata. Chiusi per ferie? Macché, chiusi per crisi, tasse e pure per colpa di una app. Ecco la sorte che tocca a quattro negozi all’ora, 90 al giorno, 2.700 al mese. Solo da gennaio ad aprile, secondo i dati di Confesercenti, sono sparite 10.654 attività. Un virus che colpisce a ogni latitudine, al nord e al centro (più di seimila) come al sud e nelle isole (le restanti 4.600). Magazzini sbarrati, locali lasciati sfitti, annunci di «cedesi attività» ignorati da mesi. Con un’emorragia di posti di lavoro che non accenna a fermarsi, anzi, visto che già alla fine dello scorso anno il saldo tra nuove imprese e quelle «cessate» era stato pesantemente negativo: quasi 25mila in meno.
Cento vetrine che chiudono, addirittura una su due entro tre anni dal brindisi d’inaugurazione. Purtroppo non è fiction, ma la realtà per una larga fetta di Paese che non vede la luce della ripresa perché è ancora intrappolata nel tunnel dei conti che non tornano. E alla fine si è costretti a gettare la spugna. Non è questione di gufi. Basta chiederlo, per esempio, ai 2.653 tra uomini e donne che portavano avanti un negozio di abbigliamento o di calzature. In comune hanno l’epilogo della loro storia imprenditoriale: nei primi quattro mesi del 2015 hanno detto addio al business. Sono evaporate persino le bolle dei compro oro (-13mila aziende in tre anni) e delle sigarette elettroniche (da tremila a poco più di mille in un biennio). Così come hanno abbassato definitivamente la clèr, come dicono a Milano – 402 macellerie, 236 botteghe di ortofrutta, 340 negozi di articoli da regalo e per fumatori, 284 edicole e giornalai; insomma, i nodi di quella rete di prossimità che tiene insieme interi quartieri. Il primo danno collaterale i cittadini lo pagano in termini di (in)sicurezza, perché meno negozi aperti significa più insegne spente e marciapiedi deserti, a rischio degrado e preda della criminalità.
Non se la passano affatto bene bar, ristoranti e pizzerie. La Federazione italiana dei pubblici esercizi (Fipe) ne ha contati diecimila in meno in un anno, con 8 miliardi di euro di mancata crescita dal 2011 a oggi. Qui il turnover è particolarmente accelerato, c’è un alto tasso di improvvisazione: in molti aprono un locale, magari dopo aver perso il precedente lavoro, ma spesso senza successo. Per gli immigrati, con aspettative di guadagno più basse, il settore è diventato particolarmente appetibile. E così proliferano sushi restaurant, kebab take away, alimentari etnici. Gli imprenditori italiani invece ci provano con gelaterie artigianali e botteghe di prodotti bio, tra le poche che vantano trend positivi. Per tutti, però, l’orizzonte di sopravvivenza non supera i 5 anni.
Perché si chiude? Colpa della crisi economica, certo, che ha stravolto le abitudini delle famiglie. La spesa per consumi, certifica ancora Confesercenti, lo scorso anno è rimasta pressoché stabile dopo aver perso 60 miliardi di euro nei due anni precedenti. Spinge a mollare tutto la zavorra di burocrazia e tasse, ormai insostenibile se la pressione fiscale è oltre il 50%, per non parlare dei rincari Imu e Tari. Incide il costo degli affitti dei locali commerciali, soltanto adesso i prezzi sono rientrati sotto il livello di guardia (è l’altra faccia della stangata sul mattone) dopo gli aumenti esponenziali del passato. E poi c’è il fattore I, come internet. Nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, il web sta portando all’estinzione di alcune «specie», costringe gioco forza al cambiamento molte altre, e così si modifica il panorama delle insegne accese. La possibilità di prenotare con un pc o uno smartphone (a proposito, i negozi di telefonia, quelli sì, sono in attivo) qualsiasi aspetto di una vacanza, dal volo al pernottamento fino alle escursioni, ha messo in ginocchio da tempo le agenzie di viaggio. I cliccatissimi siti di room&house sharing complicano la vita ad alberghi e pensioni (già 400 in meno quest’anno), mentre i 26mila bed&breakfast sembrano reggere meglio all’impatto. Il commercio in Rete continua a crescere e intanto spazza via librerie indipendenti, negozietti di musica, le piccole sale cinematografiche. In ogni caso, internet obbliga tutti a reinventarsi.
La metamorfosi delle città è continua, sotto i nostri occhi di passanti a volte distratti. Intanto c’è chi dice addio al negozio dentro quattro mura, e riparte. In 22mila nuovi commercianti, negli ultimi 5 anni, hanno scommesso tutto su un’impresa ambulante, italiani ma soprattutto stranieri (il sorpasso è già avvenuto: sono il 52%). Cento vetrine che chiudono per cento bancarelle che rispuntano agli angoli dei nostri quartieri.
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QUI MILANO. Un cinema su tre chiude il sipario Ma le sale d’essai rinascono grazie a internet e all’oratorio
Decine di insegne storiche sono sparite dal centro, pochi i piccoli che resistono alla concorrenza dei multiplex Ora il pubblico organizza sul web le proiezioni
di Giacomo Susca
S corrono i titoli di coda per un cinema su tre. Se si guarda il film degli ultimi anni ambientato a Milano sembra un amarcord. Per la Camera di commercio meneghina contano i numeri sui registri: le imprese attive nel settore «proiezione cinematografica» in città erano 68 nel primo trimestre del 2010, nel 2015 sono 47, ovvero -30,9%. Percentuale da fine di un’epoca, l’ennesima. Negli anni ’70 ci fu l’assalto delle tv private, adesso c’è la minaccia delle cineteche virtuali infinite, in streaming su tablet e telefonini. C’erano una volta Ambasciatori, Pasquirolo, Mediolanum, Excelsior, President, Maestoso, Corallo, Cavour... la Spoon river delle sale sparite dai radar del centro potrebbe continuare. Del cinema Gnomo è rimasto solo il bar per gli studenti dell’Università cattolica; il Nuovo Orchidea, in un edificio storico acquisito dal Comune di Milano, dal 2009 è chiuso. La giunta Pisapia ha annunciato un investimento da un milione di euro per il restauro e il rilancio. Ha riaperto per tre giorni la scorsa primavera, oggi è di nuovo deserto.
Due multiplex, 11 multisala, 7 monosala, 3 arene estive: ecco l’offerta per cinefili in città. L’ultima sala a luci rosse rimasta, il Pussycat in fondo al Giambellino, da novembre è materia da archeologia cinematografica. Sette schermi, invece, sono affiliati alla Federazione italiana cinema d’essai (Fice). Se i colossi fanno fatica, figurarsi i piccoli che provano a resistere. L’aggiornamento al digitale per molti di loro è stata una barriera (di costi) insormontabile. Perciò la storia del Mexico (sala con 280 posti in zona Solari-Tortona, passato al digitale tre anni fa) è da «miracolo a Milano». Il proprietario Antonio Sancassani lo gestisce da quarant’anni. «I milanesi vanno di meno al cinema, c’è poco da fare. Essere indipendenti è una strada sempre in salita. Il nostro pubblico è colto ed esperto, bisogna saperne interpretare i gusti». Per galleggiare servono 50mila ingressi all’anno. La programmazione è fondamentale. Al Mexico si scelgono film di registi emergenti e rassegne al di fuori dei soliti schemi. E si batte pure qualche record: Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti è stato in cartellone per due anni. Il Mexico, poi, è uno dei quattro cinema al mondo che continua a dare ogni settimana il Rocky horror picture show. «Le grandi case di moda che hanno comprato ovunque nel quartiere mi chiedono di vendere tutto. Finché ci riuscirò, continuerò a rispondere “No, grazie!”», rivendica Sancassani.
Dal proiettore escono ombre, ma anche luci. Le sale parrocchiali sono un mondo che non conosce crisi, che continua a reiventarsi. In città sono una cinquantina le sale «della comunità» aderenti al circuito Acec (Associazione cattolica esercenti cinema). Crescono perché hanno la forza di onlus gestite con modalità commerciali, facendo leva sul basso costo dei biglietti. Ma soprattutto, per merito dei volontari, diventano presìdi di socialità nelle periferie in chiave anti degrado.
Intanto ritorna, grazie a internet, una modalità di visione sperimentale, da «cineforum» ma in versione 2.0. L’idea di Antonello Centomani e dei suoi soci applica la filosofia sharing al cinema per farne impresa. «Sulla piattaforma Movieday è possibile scegliere online un film, il giorno, l’ora e la sala in cui fissare la proiezione». Così gli utenti (bastano da 20 a 80 persone) creano un evento personalizzato, «per riguardare classici come Alien o Grosso guaio a Chinatown, oppure per scoprire le opere di giovani registi che altrimenti non riuscirebbero a essere distribuiti». Da un paio di mesi, al Plinius e al Beltrade, il cinema d’essai è rinato. In una veste decisamente social...
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QUI ROMA. Le edicole in via d’estinzione: turni sfiancanti, guadagni ai minimi «Paghiamo anche la tassa sull’ombra»–
È sempre stato un lavoraccio, di alzatacce e sacrifici. Ora lo è ancora di più. Perché è dura stare in gabbia 12 ore al giorno, con la pioggia o con il sole, per tornare a casa la sera con pochi spiccioli.
In Italia chiudono cinque edicole al giorno. A Roma basta fare un giro per toccare con mano la crisi del settore. Sono diverse quelle che hanno tirato giù le saracinesche per non riaprire più. Molte quelle che hanno ridotto l’orario. Stare aperti non conviene. E la notte non ne parliamo. Trovare un giornalaio dopo cena è ormai un’impresa. Anni fa era diverso. La notte l’edicola era un luogo vivo. E non solo per gli appassionati di riviste porno, che adesso hanno risolto con un clic. La gente compra sempre meno i giornali di giorno, figuriamoci di notte. Il piccolo chiosco di piazza Esedra ancora resiste, sempre aperto, come quello di viale Manzoni. E pochissimi altri.
«Negli ultimi anni a Roma hanno chiuso oltre 200 edicole - conferma il segretario provinciale del Sinagi, Enrico Iannelli - la categoria risente della crisi della stampa e di quella economica». La capitale è davvero piena di edicole sbarrate. Ce n’è una chiusa nel centralissimo Corso Vittorio Emanuele, due in piazza Vittorio, una in via Crescenzio. E se si scorrono gli annunci immobiliari fa impressione vedere quante sono quelle in vendita. Ce ne sono per tutte le tasche, si va dai 70mila ai 180mila euro. Il problema è trovare qualcuno disposto a sborsare del denaro per un lavoro ormai in crisi. Neanche i cinesi ci hanno messo le mani. Non è un business neppure per loro. Ed infatti le due edicole di piazza Vittorio, la Chinatown romana dove gli orientali si sono presi tutto, sono rimaste chiuse. «Sono scappati tutti - racconta uno dei giornalai superstiti della zona - chi vuole più stare 12 ore in mezzo alla strada per guadagnare 30 euro al giorno. L’edicola l’ho ceduta a mio figlio, io ho un ristorante dove guadagno in quattro ore quello che incassa lui in quattro giorni». Ma non è soltanto una questione di quartiere. Gli edicolanti che si arrendono sono ovunque. Anche l’edicola di piazza Cola di Rienzo, in Prati, è in vendita da due anni. Sono marito e moglie a gestirla, ma ormai arrancano e vorrebbero ritirarsi: «Si guadagna sempre meno e si pagano tasse sempre più alte, anche la tassa sull’ombra», dicono. In piazza del Parlamento c’è l’edicola più antica di Roma. «Questo è un mestiere che sta morendo e nessuno ci aiuta. Il problema è anche la tecnologia - racconta il signor Giorgio - pochi comprano ancora il cartaceo. Ci reggiamo sulle riviste, ma ormai vendiamo la metà delle copie di tutto e riusciamo a portare a casa al massimo un solo stipendio, con tutte le tasse che dobbiamo pagare». Lamentele comuni. Poco più in là la musica è la stessa: «Siamo costretti ad andare avanti vendendo souvenir e cartoline». Ed in effetti più che edicole sembrano piccoli bazar, dove si vende di tutto, anche l’acqua. Chi non diversifica non ce la fa a tirare avanti. «Io mi salvo perché ho la stampa di tutto il mondo e riviste specializzate che in altre edicole non si trovano», racconta la titolare del chiosco di via Veneto. Ma per la maggior parte dei giornalai i margini di guadagno sono inesistenti. E si fa fatica ad andare avanti: «È colpa anche degli editori - dice l’edicolante di piazza Walter Rossi - che con i giornali distribuiti ovunque e gli abbonamenti a prezzi stracciati non ci aiutano. E poi se 25 anni fa scaricavano 500 copie di un giornale, ora se ne scaricano al massimo 80. E pensare che con questa edicola vent’anni fa ci vivevano due famiglie, la mia e quella di mio cognato, e ci abbiamo pagato un mutuo».
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QUI NAPOLI. Le pizzerie spengono il forno Ora i kebab mettono le mani nella pasta del business
«A via Chiaia ce ne stanno tre». «No, quattro, le ho contate ieri». Su Napoli incombe lo spettro delle patatinerie. Giallo fluorescenti e visibilissime in queste giornate di sole perpetuo, aperte sulle strade principali ma anche nei vicoli, eccole le nuove arrivate nella città più lontana dall’idea dei take away di tutti i capoluoghi d’Italia. Eppure: «I giovani questi qua ce li portano via», sospirano i pizzaioli. Dalla margherita al ketchup nei barattoli di plastica: è un dramma per Napoli.
Sì, perché le pizzerie non se la passano bene nel luogo simbolo della Marinara e delle sue sorelle, in corsa per il titolo di Patrimonio dell’Unesco. Lo dicono i dati delle associazioni degli esercenti, le saracinesche chiuse, l’associazione pizzaioli napoletani di corso San Giovanni a Teduccio. I gestori sono strangolati dalle tasse e dagli affitti spropositati: «Alla scadenza del contratto di dodici anni - spiega il presidente, Sergio Miccù - i proprietari del locale chiedono un aumento fuori luogo». A via Chiaia raccontano di 11mila euro per un locale di appena cinquanta metri. Prezzi alle stelle anche al Vomero, dove ha chiuso la pizzeria Don Giovanni. Lo scorso anno Giuseppe Bruscolotti, storico capitano del Napoli, ha messo i sigilli alla 10 maggio 87. Dal Vomero se n’è andato anche Fendi: la crisi del commercio sotto il Vesuvio riguarda infatti anche le grandi griffe, e le gioiellerie. Gli ori di Napoli si stanno offuscando, anche se una leggera ripresa del turismo quest’estate c’è.
Secondo gli ultimi dati Confesercenti, nei primi sei mesi del 2014 nella provincia sono stati chiusi quasi 300 tra pizzerie e ristoranti. A Napoli città 105. Al contrario si stanno moltiplicando i piccoli bar e chioschi di kebab e patatine. Secondo un’altra ricerca di Confazienda, a Napoli nel 2014 il numero di bar è quadruplicato. Sono stati aperti seicento esercizi tra grafferie (140), dove si vendono le ciambelle fritte napoletane, paninoteche (300), kebaberie (80), patatinerie (50) e yogurterie (30). In base a un rilevamento Unioncamere di febbraio 2015, a Napoli chiudono diciotto negozi al giorno. È crisi dell’alimentare: 43 iscrizioni, 74 cancellazioni nel periodo gennaio-aprile 2015.
Qualche tempo fa era stata costretta a ridurre il servizio addirittura la pizzeria Brandi di Salita Sant’Anna di Palazzo, la pizzeria dove sarebbe nata la Margherita in onore della regina, nel 1889. I tavoli a pranzo ora sono tutti pieni. Eduardo Pagnani racconta: «Eravamo arrivati ad avere 200mila euro di debiti nei confronti dello Stato. Abbiamo dovuto mettere in cassa integrazione dieci dipendenti». Poi i contratti sono stati rimodulati e qualcuno è rientrato: «Patatinerie, kebab, ci portano via gente. Poi abbiamo la concorrenza sleale». Si riferisce alle mani della mafia sulla pizza, i locali aperti dalla camorra. Se i marchi storici riescono a resistere, la crisi colpisce le pizzerie nascoste nei quartieri che soffrono, dove i tassi di disoccupazione sfiorano il 50%. «Sempre più difficilmente riescono a far quadrare i conti», riassume il presidente di Confesercenti Napoli, Vincenzo Schiavo. È ormai frequente «Vedere il proprietario che serve ai tavoli e sta alla cassa». Aprono invece nuovi esercizi in franchising: «Pochi costi: patatine già imbustate, una persona frigge, l’altra serve». Ma il boom inaspettato del cibo prêt-à-porter «deve essere controllato», ammette Schiavo: «Quando ci sono attività che crescono in maniera veloce bisogna stare attenti, perché Napoli e una città difficile. La malavita tende a entrare nei percorsi virtuosi più velocemente di quanto noi possiamo percepire».