La Stampa, 20 luglio 2015
Tre domande sul piano del premier. Il programma è sostenibile politicamente? Ed economicamente? E le sue misure stimoleranno davvero la crescita? Risponde Deaglio.
Nel 1994, poco prima delle elezioni, Berlusconi si impegnò a creare un milione di posti di lavoro; nel 2013 i milioni di posti di lavoro promessi erano diventati quattro. Nel 2001 lo stesso Berlusconi aveva firmato in diretta televisiva un «contratto con gli italiani». Di tutte quelle promesse sappiamo che si è realizzato poco.
In un mondo in cui la politica non è più fortemente sorretta da principi e ideologie, i leader sono costretti a ricorrere a slogan e promesse; negli anni della Prima Repubblica, al contrario, la politica faceva riferimento al quadro della programmazione, con l’obiettivo generale di ridurre i divari sociali, territoriali e settoriali. Su come ridurre tali divari si studiava e si dibatteva con un dialogo a tutti i livelli. Questo dialogo si interruppe gradualmente negli Anni Ottanta e gradualmente fu sostituito, negli Anni Novanta, da una generica faciloneria: dai convegni sulle riforme possibili si passò alle chiacchiere da bar, nelle quali tutto diventava possibile. Per conseguenza, quando Berlusconi si dimise, nel novembre 2011, le forze politiche, non solo dell’ex maggioranza ma anche dell’ex opposizione, si trovarono politicamente nude, con un terribile vuoto di programmi e di idee.
L’unità politica del Paese si realizzò provvisoriamente attorno a un’emergenza economico-finanziaria di tipo greco. Superata, quest’emergenza, però, il vuoto profondo di progetti sul futuro a lungo termine del Paese (una condizione, peraltro, non solo italiana ma anzi comune a molti Paesi europei) si è fatto pesantemente sentire. Il presidente del Consiglio è quindi tornato, forse inevitabilmente, alla politica degli annunci.
In un’intervista concessa ieri al Tg2, Renzi ha presentato un abbozzo di programma economico di legislatura. Tale intervista prospetta una serie di misure, articolate nel tempo, da qui al 2018, alla quale ha dato – senza fantasia e con non poca infelicità – il nome di «patto con gli italiani», troppo simile al «contratto» berlusconiano. Pur essendo meglio articolato e dotato di una precisa scansione temporale, il «patto» renziano ha in comune con il «contratto» berlusconiano l’assenza di obiettivi generali di lungo periodo, sostituiti da una generica istanza di «fine dei tempi difficili», di più soldi nei portafogli degli italiani.
Siamo quindi in presenza del recupero di una scansione temporale, e quindi di una dimensione politica, e non soltanto di un catalogo dei desideri, il che sicuramente rappresenta un progresso. Questo programma, però, non è frutto di confronti e dibattiti, di un dialogo sociale. Allo stato attuale, sembra trattarsi di una proposta «prendere o lasciare» che impegna personalmente il leader e, di fatto, lui solo e non una collegialità di forze politiche, a loro volta in rapporto con l’opinione pubblica.
Il che pone tre interrogativi.
Il primo è se il programma sia sostenibile politicamente e la risposta è: probabilmente sì. Un Paese che soffre di un’elevatissima pressione fiscale non può non guardare con favore a una promessa di riduzione delle imposte. Naturalmente moltissimi cittadini si aspettano che, pur con 50 miliardi di imposte e tasse in meno, i servizi pubblici continuino a funzionare come prima o, se possibile, meglio di prima. Questo significa dare per scontato il successo, in termini di produttività e di efficienza, della riforma dell’amministrazione pubblica che è alle sue ultime battute parlamentari, un successo che si può e si deve naturalmente augurare ma che proprio scontato certamente non è.
Il secondo interrogativo riguarda la sostenibilità economica interna di tale patto. La scommessa di Renzi è che il “patto” cambi l’umore del Paese, che gli italiani, entusiasmati dal calo delle imposte, si rimettano a investire, consumare, produrre come facevano venti-trent’anni fa. Era questa anche la scommessa di Giulio Tremonti, lo stratega economico degli anni di Berlusconi, che adoperò soprattutto i condoni fiscali nei confronti del «popolo delle partite Iva». Tremonti però fallì l’obiettivo: il popolo delle partite Iva si avvalse naturalmente dei condoni ma si rivelò complessivamente privo dell’entusiasmo e delle capacità innovative sperate e l’economia italiana proseguì sulla strada del declino. Né esito migliore sembra aver avuto il «bonus» da 80 euro al mese, prima vera misura economica del governo Renzi. dal quale sembra, al massimo, essere derivato solo un pallido sostegno alla tenuta e alla ripresa dei consumi.
Supponiamo che anche quest’ostacolo sia superato, rimane il terzo interrogativo: sarà sostenibile questa futura ripresa italiana da un punto di vista internazionale? Il presidente del Consiglio assicura che l’Italia non sforerà il tetto europeo del 3 per cento nel rapporto tra il deficit e il prodotto interno lordo. Se le sue misure stimoleranno davvero la crescita, i fatti gli daranno ragione; in questo, però, non c’è nulla di scontato. Il tasso di crescita delle esportazioni, principale motore dell’attuale, modesto, rimbalzo produttivo, si sta indebolendo rapidamente per una difficile situazione mondiale che ha indotto il Fondo Monetario a rivedere al ribasso le previsioni per l’intero pianeta.
In sostanza, il presidente del Consiglio fa bene a mettere sul piatto proposte di crescita che hanno un respiro che troppo a lungo è mancato alla politica italiana. Forse non fa altrettanto bene a proporle come un prodotto preconfezionato, privo di alternative: a un grande sconto fiscale sarebbero forse preferibile uno sconto inferiore con risorse mirate alla crescita di determinate aree territoriali e sociali. All’interno del quadro fiscale, poi, la priorità assoluta alla riduzione delle imposte sulla proprietà immobiliare lascia perplessi di fronte alle possibilità parallele di detassare un po’ meno le case e un po’ più gli investimenti, sostenere i redditi più bassi, recuperare i giovani che non ce la fanno.