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 2015  luglio 20 Lunedì calendario

Il patto con gli italiani e il piano di Renzi per dividere la minoranza del Pd: «Partono in 25 ma quanti arriveranno a votare contro? Se tengono una posizione così rigida forse non tutti li seguiranno». Intanto pensa a favorire la costituzione di un nuovo gruppo di “amici delle riforme” - i verdiniani - che possa compensare le falle nel suo schieramento

Approvare la riforma costituzionale e, soltanto dopo, abbassare le tasse con la legge di Stabilità. Questo il cuore del «patto con gli italiani» ribadito ieri da Matteo Renzi in tv. Un patto che la minoranza del Pd vive come un «ricatto» in vista della battaglia campale a palazzo Madama. Roberto Speranza, capo dei bersaniani, s’inalbera: «Non è che se tagli l’Imu sulla prima casa io cambio idea sul fatto che il Senato debba essere elettivo!».
Il muro contro muro sembra inevitabile. Così, per arrivare all’obiettivo di un voto favorevole entro il 15 settembre sul ddl Boschi, il premier si muove da settimane su due piani separati. Il primo per dividere il fronte degli irriducibili dem. Il secondo per favorire la costituzione di un nuovo gruppo di “amici delle riforme” – i verdiniani – che possa compensare le falle nel suo schieramento. Con i suoi Renzi si è mostrato ottimista: «Partono in 25 ma quanti arriveranno a votare contro? Se tengono una posizione così rigida forse non tutti li seguiranno». Se la minoranza che si raccoglie intorno a Migliavacca, Chiti e Gotor dovesse spaccarsi a metà, per il segretario sarebbe fatta. E i voti di “Azione liberale”, questo il nome più probabile del nuovo gruppo di ex forzisti ed ex Gal, basterebbero a far passare la riforma costituzionale. Un’ipotesi su cui i ribelli iniziano un bombardamento preventivo. «Offendere il proprio partito per fare un accordicchio con Verdini e i senatori amici di Cosentino e Lombardo – attacca Miguel Gotor – sarebbe una cosa sciagurata. E comporterebbe, dopo quella sulla scuola, un’ulteriore perdita di consensi del Pd». Eventualità che Renzi ha già messo nel conto, ma che punta a recuperare con la «grande rivoluzione copernicana» sulle tasse. Riportando al Pd i voti del ceto medio.
Intanto la prima ricaduta della costituzione del gruppo Verdini – ormai questione di giorni la si avrà sulla composizione della commissione Affari costituzionali. Dove la maggioranza può contare su soli 14 voti contro i 14 dell’opposizione. Per il regolamento del Senato il nuovo gruppo avrà infatti diritto a un suo rappresentante in commissione. E nel circolo renziano hanno già calcolato che a saltare sarà la testa di Mario Mauro, ora in rappresentanza del gruppo Gal, strenuo oppositore del- la riforma. In questo modo il nuovo componente verdiniano, con il suo voto, potrà facilitare il passaggio della riforma dalla commissione in aula.
Lo scoglio più grande, quello dell’elettività dei senatori, è comunque ancora appeso alla decisione del presidente Grasso di riaprire o meno l’articolo 2 della legge. La regola della cosiddetta lettura“doppia conforme” in teoria non consentirebbe di poter introdurre modifiche, ma in fatto di regolamenti i cavilli rendono la scelta di Grasso tutta politica. «Non sappiamo come si regolerà il presidente – ammette Andrea Marcucci, uno dei capifila renziani ma sono convinto che si faranno passi in avanti. Qualcosa dovremo mollare, ma alla fine l’accordo si troverà». Un ottimismo che si scontra con la posizione della minoranza, decisa a non accettare nulla di meno che l’elezione diretta dei senatori: «Abbiamo già detto di no – mette in chiaro Gotor – alla proposta di mediazione di un listino collegato su cui indicare i consiglieri regionali da mandare a palazzo Madama».
La minoranza punta poi a ripristinare un elenco di materie che dovrebbero tornare “bicamerali”, su cui cioé il Senato avrebbe comunque diritto di voto paritario rispetto alla Camera. Ed è proprio qui che i renziani hanno intravisto la trappola. Perché si creerebbe un «contropotere» del Senato rispetto a Montecitorio, con la possibilità di bloccare le leggi di un futuro governo Renzi. Con orrore gli esperti costituzionali vicini a palazzo Chigi hanno infatti segnalato al premier un “bug”, una falla nel nuovo sistema. Il primo Senato nominato dopo l’approvazione della riforma sarà infatti composto da consiglieri regionali eletti negli attuali consigli. E in quasi tutte le regioni a parte Piemonte, Friuli, Emilia e Marche – a dominare sono i presidenti dem lontani da Renzi: dalla Toscana alla Puglia, dalla Sicilia alla Calabria, dalla Campania all’Umbria. Il primo Senato, oltre ai consiglieri d’opposizione, avrà una maggioranza figlia del passato. Frutto di un Pd ancora bersaniano. Un motivo in più per Renzi per opporsi a ulteriori concessioni.