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 2015  luglio 20 Lunedì calendario

In nome del padre. Parla Zhanna, la 31enne giornalista figlia di Boris Nemstov, il leader dell’opposizione ucciso nel febbraio scorso. Fa sapere che nonostante le minacce è decisa a portare avanti la lotta per gli ideali del papà. Ora vive in Germania: «Tornare in Patria sarebbe troppo pericoloso. Ho scatenato l’ira dei potenti quando ho imputato a Putin la responsabilità politica dell’assassinio»

Dopo la morte del padre Boris Nemtsov, leader dell’opposizione russa, Zhanna Nemtsova ne ha raccolto il testimone. Da allora è nel mirino del governo di Mosca. In questa intervista, la 31enne giornalista parla per la prima volta delle pressioni del Cremlino e della sua reazione alle minacce. Si è trasferita in Germania dove lavorerà per il programma russo della tv Deutsche Welle. È decisa a portare avanti la lotta per gli ideali del padre, restando in Occidente. Tornare in Russia sarebbe «troppo pericoloso», finché Putin resta al potere.
A che punto sono le indagini sull’assassinio di suo padre?
«Al momento sembra che gli indizi portino verso la Cecenia. Ma per ora è difficile dire dove approderanno. Le indagini sono andate avanti con estrema lentezza, e hanno finito per arenarsi. A tutt’oggi sono stati fermati e interrogati solo i presunti esecutori del delitto. I responsabili del Comitato investigativo hanno espresso più volte disappunto perché secondo loro faccio troppe domande. Come quando ho chiesto come mai, al momento dell’omicidio, alcune telecamere di sorveglianza non fossero in funzione».
Lei è diventata scomoda. È per questo che ha lasciato la Russia?
«Non era nelle mie intenzioni, dato che amo il mio Paese. Ma se fossi rimasta avrei corso troppi rischi. Chiunque critichi Putin e il suo governo, o la pensi diversamente, è perseguitato. Le alternative sono due: o si tiene la bocca chiusa, e in tal caso si può stare tranquilli; oppure si dice ciò che si pensa, e allora si è esposti a tutti i possibili rischi. Dopo la morte di mio padre ho preso la mia decisione secondo coscienza. E ho scatenato l’ira dei potenti, soprattutto quando ho detto di imputare personalmente a Putin la responsabilità politica del suo assassinio».
Con quali conseguenze?
«Il Cremlino ha preteso il mio licenziamento dalla tv Rbk, con cui collaboravo. Per fortuna i proprietari dell’emittente non hanno ottemperato all’ordine; ma il mio lavoro era comunque a rischio. Perciò mi sono dimessa».
Ha subito pressioni concrete?
«Servendosi di un intermediario, gli esponenti del potere mi hanno ingiunto di revocare l’incarico al legale che difende i miei interessi come parte lesa. Il mio avvocato aveva avanzato la richiesta, sgradita alle autorità giudiziarie, di citare come teste il presidente ceceno Kadyrov. Sia i presunti esecutori che i presunti mandanti dell’assassinio conoscevano bene Kadyrov, come lui stesso ha detto più di una volta: erano ai suoi ordini. E dato che l’inchiesta era finita in un vicolo cieco, il mio avvocato aveva chiesto che le indagini fossero portate avanti sotto controllo internazionale: è stato questo il secondo motivo delle pressioni esercitate nei miei confronti. Inoltre mi hanno fatto sapere di non gradire lo scalpore mediatico suscitato dal caso Nemtsov».
Chi le ha recapitato questi messaggi? E in che modo?
«Mi sono stati inviati apertamente, per iscritto, tramite un intermediario. Allo stesso modo mi hanno fatto sapere che avrei dovuto scegliermi un altro avvocato. Uno che fosse, evidentemente, di loro gradimento».
E come ha reagito?
«Con un categorico “no”. Condivido pienamente la posizione del mio avvocato, che per anni ha assistito mio padre ed era solidale con lui anche sul piano ideale. Inoltre voglio che i media continuino a occuparsi del caso: è uno dei pochi mezzi a disposizione per costringere il sistema a fare qualcosa. Le pressioni nei miei confronti sono una chiara dimostrazione delle ingerenze del potere sulle indagini. Non vogliono che si faccia chiarezza su questo crimine, neppure in modo parziale. E dato che io, al contrario, mi batto perché sia fatta piena luce, mi vedono come un pericolo.
Vorrebbero che io smettessi di lottare per far emergere la verità sulla morte di mio padre. Una prova di cinismo inaudito».
Non ha paura?
«Credo che il mio “no” abbia irritato gli uomini al potere. Mi hanno reso noto il loro “vivo disappunto” per il mio atteggiamento. Non ho paura: anche perché sarebbe difficile vivere con la paura addosso. Ma prendo molto sul serio tutto questo. Perciò ora vivo all’estero, soprattutto in Germania».
Pensa di tornare in Russia?
«I media propagandistici diffondono l’odio e l’aggressività. La violenza può sfuggire di mano. A darmi la spinta decisiva per espatriare è stato il caso del giornalista Wladimir Kara-Mursa, che con ogni probabilità ha subito un tentativo di avvelenamento. Era un amico intimo e un compagno di strada di mio padre. Quel tentativo di omicidio mi ha fatto toccare con mano la realtà della Russia di oggi: una realtà terribile. Vivendo all’estero posso fare di più che rimanendo in patria. Tornerò solo quando la Russia sarà di nuovo uno stato di diritto. Ma sotto Putin, questo non sarà possibile».
Perché?
«A lui piace farsi chiamare “leader nazionale”. In realtà il presidente dovrebbe essere il garante della Costituzione, ma oggi non verrebbe in mente a nessuno di attribuire questa definizione a Putin, che ha violato quasi tutti i principi della nostra Costituzione».
Quando pensa che in Russia possa ristabilirsi lo stato di diritto?
«Non mi aspetto un cambiamento rapido. Di fatto, quanto più a lungo un dittatore resta al potere, tanto maggiore è il pericolo di una rivoluzione sanguinosa, di una guerra civile. Ecco perché la democrazia è così importante: è il solo sistema che consente un’alternanza pacifica al potere. Quanto più a lungo Putin resterà al governo stringendo sempre più Paese nella sua morsa, tanto più imprevedibili saranno gli sviluppi della situazione in Russia».
Sul ponte del Cremlino, dove suo padre è stato assassinato, la gente continua a depositare fiori e ritratti, trasformando quel luogo in una sorta di monumento spontaneo. Che però è stato più volte violato e devastato. Cosa prova davanti a questi atti di vilipendio?
«Il fatto che quel ponte sia diventato un simbolo non piace ai detentori del potere. Ecco perché tollerano i vandali – o magari li incaricano direttamente di infierire su quel luogo. Ma oggi il ponte del Cremlino è costantemente sorvegliato da volontari: è diventato un simbolo della resistenza».
Non pensa che Putin sia tanto popolare da non dover temere avversari?
«I sistemi totalitari sono molto instabili, anche quando godono di un vasto appoggio popolare. I leader sanno benissimo che quel consenso si basa su stati d’animo quanto mai volubili: ha i piedi d’argilla. Anche perché l’economia è in crisi, e il Paese è sempre più isolato».
Che progetti ha per la sua vita in esilio?
«Mi propongo di creare una Fondazione intitolata a mio padre, con la missione di portare avanti i suoi ideali, anche attraverso il conferimento di un premio annuale. Il Premio Nemtsov verrà assegnato a chi dà prova di coraggio nell’esprimere la propria opinione. Inoltre sono in cantiere tanti altri progetti. Per me l’importante è portare avanti l’opera di mio padre, e prolungare così la sua vita. Anche al di là della morte».
Gli organizzatori del premio “Solidarnosc” hanno recentemente annunciato la sua premiazione, che verrà proclamata nel prossimo mese d’agosto Varsavia. Come pensa di usare i 250.000 euro del premio?
«Spenderò l’intera somma per la Fondazione Nemtsov. Evidentemente il premio mi è stato assegnato perché ho il coraggio di dire apertamente ciò che penso. Siamo dunque a questo punto: i russi che osano parlare con franchezza sono ormai così rari da venir premiati in altri Paesi per il loro coraggio!».
Tra i compiti che si prefigge, uno dei più importanti è la lotta contro la propaganda russa. Come pensa di condurla?
«Dato che incita all’odio e alla violenza, la propaganda di Putin uccide. I responsabili di questa propagazione di veleni sono almeno otto: i nomi figurano su una lista che abbiamo pubblicato. Almeno a queste otto persone si dovrebbe vietare l’ingresso nei Paesi occidentali».
Quell’elenco comprende anche giornalisti: un divieto del genere rischierebbe di ledere la libertà d’opinione.
«Sono diffamatori, non giornalisti: gente che usa metodi criminali. Anche in Ruanda, chi ha fomentato l’odio si è giustificato spesso adducendo la libertà di stampa! Ma questa libertà deve trovare un limite laddove incita al massacro. L’assassinio di mio padre è stato reso possibile anche da quel tipo di istigazione all’odio e alla violenza. Lo hanno distrutto, annientato come essere umano: dunque uno che si può ammazzare. Una società in cui avvengono cose simili è disumana».
E i tribunali? Qual è il loro ruolo?
«Non esistono più tribunali indipendenti in Russia: i giudici ricevono ordini dal regime. È vero che il codice penale contiene un paragrafo che riguarda anche la propaganda diffamatoria, ma è applicato quasi esclusivamente agli oppositori. A nessuno verrebbe in mente di affidare a un tribunale russo il giudizio sui responsabili dell’abbattimento del Boeing malese nello spazio aereo dell’Ucraina. La Russia si allontana sempre più da ciò che dovrebbe essere uno stato di diritto – in barba a quanto è scritto nella nostra Costituzione».