Corriere della Sera, 20 luglio 2015
Cinque domande e cinque risposte per capire meglio la crisi greca. Dall’insostenibilità del debito fino al sistema pensionistico, passando per il Pil che è crollato del 4 per cento
Il debito è insostenibile e non sarà mai rimborsato?
Il Fmi ritiene che il debito greco sia insostenibile e vada ridotto, mentre la Germania ribatte che la Grecia gode già di un sostanziale condono e vuole limitare la portata di una nuova ristrutturazione.
Le cifre sembrano dar ragione a Berlino: Paul De Grauwe (www.voxeu.org) mostra che i prestiti dei governi europei e le ristrutturazioni del 2012 rendono il debito greco meno pesante di quanto accada all’Italia (vedi grafico).
Gli oneri da interesse erano al 7,5% del Pil nel 2011 e sono scesi al 4% nel 2014. Questi interessi erano pari al 6% del debito all’inizio della crisi ma l’anno scorso erano crollati al 2,2%: il peso dell’esposizione è inferiore a quello di Paesi solidi come Francia o Belgio. Inoltre, superate le scadenze da 25 miliardi del 2015, dagli anni prossimi il percorso di Atene è più agevole: i rimborsi ai governi europei partono nel 2020, quelli al fondo salvataggi partono nel 2022 e finiscono nel 2055. Eppure il Fmi ha ragione: lo stock di debito va verso il 200% del Pil. L’incertezza creata da questo dato per un’economia povera di risparmio e basi produttive, incapace di stampare moneta, mina la fiducia e paralizza gli investimenti. Il debito non è insostenibile, ma va concesso sollievo per rimuovere la nube che grava sul Paese. Un modo per farlo fu già sperimentato dagli Stati Uniti con Londra fra le due guerre: spostare in avanti di decenni le scadenze dei rimborsi.
Le banche hanno chiuso per colpa della Bce?
U n episodio riferito da Stathis Kouvelakis, un dirigente di Syriza, è illuminante riguardo al clima che ha portato alla chiusura delle banche. Il 26 giugno Tsipras raccoglie i fedelissimi per decidere sul referendum contro l’accordo europeo. Kouvelakis è lì. Panagiotis Lafazanis, il leader dei «duri», approva il referendum, ma prevede che l’Europa avrebbe reagito tagliando la liquidità alle banche. Tutti nella stanza scoppiano a ridere.
I fatti sarebbero andati diversamente. La Bce ha sì bloccato il 27 giugno la liquidità di emergenza per le banche greche, non per ritorsione ma perché vincolata dalla legge. Eppure quella risata rivela come Tsipras e i suoi non avessero colto la fragilità della situazione. In Grecia da mesi si era innescata una corsa dei clienti agli sportelli, per ritirare i risparmi. Le banche si stavano dissanguando. I depositi valevano 175 miliardi di euro nel novembre 2014, prima delle elezioni vinte da Syriza, ma solo 128 miliardi quanto Tsipras annuncia il referendum. La falla si allarga: nell’ultima settimana di giugno escono 8 miliardi. Poi l’annuncio del referendum innesca due reazioni. Sabato 27 giugno il panico è immediato: si formano code ai bancomat e alle poche filiali che dovevano aprire. Ma la Bce è bloccata: i suoi prestiti di emergenza sono possibili solo a Paesi soggetti a un programma di sostegno Ue o almeno con la prospettiva di un accordo. Quella condizione permette infatti di dare valore ai titoli di Stato greci portati in garanzia dalle banche alla Bce in cambio dei finanziamenti. Ma il referendum e lo scadere del programma di aiuti il 30 giugno fanno saltare quel fragile equilibrio. Tsipras deve chiudere le banche prese d’assalto.
Le risorse del salvataggio andranno ai creditori?
Sia sul passato che sul futuro, questo è uno dei nervi scoperti per i greci. Il premier Tsipras ha detto all’europarlamento che il suo Paese non ha beneficiato dei 245 miliardi di euro del primo e secondo pacchetto di aiuti, perché quei fondi sono andati alle banche estere: i prestiti europei hanno spostato sui contribuenti l’esposizione di queste ultime, che sono uscite indenni. In parte è vero. Prima del primo pacchetto nel 2010 le banche francesi erano esposte in Grecia per 63 miliardi di dollari (dati Bri) e oggi sono scese a soli 1,6 miliardi, senza subire perdite. Le banche tedesche erano esposte per 45 miliardi nel 2010 e sono scese indenni a 5 (ma alla fine del 2014 erano già risalite a 13). Ma Olivier Blanchard, capoeconomista del Fmi, fa presente che questa vicenda ha un altro risvolto: i depositanti e le famiglie greche avevano investito in debito nazionale per circa un terzo del totale, dunque i salvataggi hanno favorito anche loro e quei soldi sono rimasti in Grecia. Per il terzo pacchetto, ora in discussione, la questione è diversa. Così le voci principali: 25 miliardi di euro serviranno per ricapitalizzare le banche, che altrimenti fallirebbero; circa 36 per ripagare le scadenze del debito verso gli altri governi, il fondo salvataggi e la Bce e l’Fmi; quasi 18 servono per pagare gli interessi sul debito; e per versare arretrati alle imprese greche creditrici dello Stato ne servono 7. In sostanza i governi europei prestano alla Grecia altri soldi per permetterle di ripagare loro stessi. Negarle questi fondi significherebbe che Berlino, Parigi, Roma o Helsinki si auto-infliggono una perdita sui propri crediti: ma così la Grecia avrà ossigeno per andare avanti.
Il governo di Tsipras ha perso il 4% del Pil?
L’estate scorsa l’economia greca appariva fragile, ma in miglioramento. Nel terzo trimestre del 2014, spinto dalla fine dell’austerità e da una buona stagione turistica, il Pil era tornato a crescere. Nel terzo trimestre del 2014 la progressione era stata la seconda più rapida dell’area euro, a un ritmo annuale di oltre il 2%. In media d’anno la Grecia aveva registrato il primo dato positivo dal 2007, in linea con le medie di Eurolandia. Le previsioni degli organismi internazionali convergevano nell’indicare che la Grecia quest’anno sarebbe cresciuta quasi al 3%. Poi tutto è cambiato. La stima del governo nel chiedere un nuovo pacchetto di prestiti vede una caduta del Pil del 3% nel 2015. Cosa è successo? In primo luogo l’esecutivo ha congelato i pagamenti alle imprese, per resistere senza nuovi prestiti nel lungo negoziato con i governi creditori: il contraccolpo ha danneggiato l’intera economia. Inoltre, l’incertezza sul rapporto con l’Europa ha paralizzato consumi e investimenti. Infine la chiusura delle banche e i controlli di capitale hanno inferto il colpo di grazia: moltissime imprese si sono fermate per mancanza di forniture e perché non possono esportare senza sostegno dagli istituti. C’è un fattore in più: più si parla di Grexit (grafico) più gli investitori esteri staranno alla larga per timore di subire in futuro una svalutazione.
Rispetto agli altri Paesi si va prima in pensione?
Il sistema pensionistico greco è stato per decenni il più finanziariamente squilibrato d’Europa. Alla vigilia della crisi del 2009, la contabilità della previdenza mostrava una situazione esplosiva: a fronte di 11 miliardi di euro di contributi dei lavoratori e 11,7 miliardi dei datori di lavoro, l’intera struttura stava in piedi solo perché lo Stato subentrava con altri 17,8 miliardi perché tutti gli assegni potessero essere pagati regolarmente. I dati Eurostat in proposito sono stati illustrati chiaramente dal blogger economico Emmanuel Schizas. Le regole del ritiro e i requisiti contributivi erano così generosi che l’intero edificio stava in piedi solo grazie a una continua generazione di debito pubblico.
Da allora si sono susseguiti interventi che hanno ridotto l’ammontare delle pensioni esistenti e hanno alzato l’età del ritiro. Oggi il 76% dei pensionati riceve meno di mille euro al mese, secondo il centro studi Macropolis, e l’età della pensione di anzianità sulla carta è stata alzata a 67 anni. Ma per certi aspetti il sistema continua ad essere meno stringente di quello in vigore per esempio in Italia. Il motivo principale: l’aumento dell’età per la pensione di anzianità per adesso è stato più teorico che effettivo. Non è solo dovuto al fatto che oggi circa il 15% dei pensionati hanno meno di 60 anni (di cui il 7,5% ha meno di 55 anni). C’è un problema in più: un po’ come nella riforma previdenziale Dini nel ’95, chi ha maturato i vecchi diritti continua a beneficiare del vecchio sistema e può ritirarsi molto prima dei 67 anni, a volte prima dei 60, con i pieni benefici. L’accordo con i governi creditori modificherà la situazione.