Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2015
«La Germania non è forse uscita indebolita dai negoziati; ma certo non si è rafforzata. Nelle trattative bisognava evitare vincitori e vinti. E infatti, nessuno sembra soddisfatto, il negoziato è finito in parità». Ma Donald Tusk, il presidente del Consiglio europeo, aggiunge anche che se «abbiamo evitato il contagio Grexit», la partita non è finita. Poi ricorda i momenti topici delle trattative, dà la sua valutazione dell’intesa raggiunta ma soprattutto parla della sua visione del futuro dell’unione monetaria: «Ci sono due estremi nel dibattito europeo: i federalisti radicali e coloro anti-Europa. La mia idea è che bisogna proteggere tutto quello che è tra queste due posizioni»
Donald Tusk ha presieduto tra domenica e lunedì le 17 ore di accesissimo negoziato tra i capi di stato e di governo della zona euro che hanno permesso, per ora, di evitare il peggio: una uscita catastrofica della Grecia dall’unione monetaria. In una intervista a sei giornali europei tra cui Il Sole 24 Ore, il presidente del Consiglio europeo, 58 anni, ha voluto ricordare i momenti topici delle trattative; dare la sua valutazione dell’intesa raggiunta con Atene; sottolineare i perduranti rischi di una Grexit; tratteggiare la sua visione del futuro dell’unione monetaria.
Il negoziato è stato duro, e molti commentatori parlano di una vittoria della Germania, che dalla vicenda sarebbe uscita rafforzata. È così?
La Germania non è forse uscita indebolita dai negoziati; ma certo non si è rafforzata. Nelle trattative bisognava evitare vincitori e vinti. E infatti, nessuno sembra soddisfatto, il negoziato è finito in parità. Il ruolo dell’Unione europea e della zona euro è anche di limitare i naturali vantaggi di alcuni paesi, come la Germania. In questa intesa, alla fin fine, la Germania fa sacrifici più di altri paesi quando si tratta di soldi. Anche politicamente, il dibattito nel Parlamento europeo, a cui ha partecipato all’inizio del mese il premier greco Alexis Tsipras, ha mostrato un tono anti-tedesco, a destra e a sinistra, di quasi metà dell’assemblea. No, non credo che la Germania sia uscita vincitrice.
Eppure si parla di umiliazione, di punizione della Grecia
Non posso accettare questa interpretazione, segnata più da ideologia che realismo. Non la capisco. Mi sembra assurdo. I paesi della zona euro si sono messi d’accordo per un pacchetto di assistenza finanziaria di 80 miliardi di euro, associato a condizioni particolarmente morbide, senza imporre collaterale.
Nelle trattative quanto ha pesato l’idea di una Grexit?
L’idea espressa dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble è intellettualmente legittima, nulla di stravagante. Sono sicuro che la cancelliera federale Angela Merkel ha considerato la posizione del ministro Schäuble uno strumento utile nel negoziato, ma che la Grexit non fosse il suo obiettivo politico. Anzi: tutti i leader intorno al tavolo hanno detto chiaramente che volevano evitare una uscita del paese mediterraneo dall’unione monetaria.
Ma quando ha avuto paura che l’ipotesi di una Grexit potesse materializzarsi veramente?
L’insuccesso dell’Eurogruppo di sabato è stato un segnale molto tangibile dei rischi di una uscita del paese dalla zona euro. Durante il negoziato tra domenica e lunedì, ho capito che l’idea di creare un fondo nel quale parcheggiare attivi da privatizzare era ritenuta una provocazione dal premier Tsipras. Lì, ho temuto il peggio, tanto più che il divario tra le parti sul modo in cui usare il denaro del fondo (se per ridurre il debito o per nuovi investimenti, ndr), era veramente di appena 2,5 miliardi di euro.
Che cosa ha permesso di trovare un accordo?
Una illuminazione? O qualcosa comunque di molto simile. In una pausa dei lavori, ho ricevuto un sms da Mark Rutte, il premier olandese, che mi ha proposto un possibile compromesso. Avevo deciso di coinvolgere il premier Rutte nelle discussioni a latere perché ho capito presto che la Germania non era il protagonista più duro nel negoziato e che l’uomo politico olandese poteva rappresentare i paesi meno pronti al compromesso. Dovevo essere sicuro che l’accordo non fosse esclusivamente greco-tedesco.
Lei dice che non vi sono stati né vincitori, né vinti. L’impressione potrebbe essere che vi siano stati solo vinti: il pacchetto è ritenuto insufficiente per salvare la Grecia e rischia peraltro di rendere ancora più insostenibile il debito del paese.
L’accordo raggiunto lunedì mattina in vista di un terzo programma di aiuti alla Grecia non è una garanzia per gli anni a venire che la crisi sia risolta. Dovevamo però evitare un vero caos e la bancarotta della Grecia. Si tratta in fondo di un primo passo in un lungo cammino. Il premier Tsipras ha spiegato in Parlamento ad Atene di sostenere un piano in cui non crede. È per me una posizione originale, ma comprensibile. Mostra comunque quanto il processo sarà difficile.
È fiducioso che l’accordo verrà negoziato con successo e che la partita è chiusa?
Non abbiamo garanzie, lo ripeto. Il processo non è terminato, ed è segnato da trappole. Non posso escludere che ci saranno altri vertici. Dobbiamo certo evitare che la discussione sia contraddistinta da sentimenti quali dignità, umiliazione, fiducia. Se guardiamo alla storia europea e in particolare a quella tedesca, questi sentimenti sono stati spesso al centro dei momenti più pericolosi in Europa.
Lei si è speso in prima persona per evitare una uscita della Grecia dalla zona euro. Che timori vede nel caso di una Grexit?
Da un punto di vista finanziario, la zona euro è relativamente protetta da una eventuale Grexit. Ho veramente paura invece di un contagio ideologico, politico, più rischioso di quella finanziario. C’è l’illusione ideologica ed economica soprattutto nella sinistra radicale, che si possa creare qualcosa di alternativo a questo tradizionale sistema europeo. Non è solo un fenomeno greco. Si discute molto di austerità, per esempio. Non ho dubbio che la frugalità sia un valore fondamentale e una delle ragioni per cui l’Europa è la regione più propera al mondo. Da più parti si mette in dubbio l’Unione in quanto organizzazione. In certi casi, penso che vi siano alcuni politici e alcuni intellettuali stanchi dell’Europa, pronti a mettere in dubbio tutto, pronti a cambiare tutto, non solo i Trattati ma anche questo tradizionale modo di pensare all’Europa. Noto una atmosfera simile a quella del 1968, non proprio un sentimento rivoluzionario, ma una impazienza generalizzata. Quando l’impazienza diventa un fenomeno sociale, siamo all’anticamera di una rivoluzione.
Lei fa una differenza tra la sinistra radicale e la destra radicale?
L’alleanza tattica tra sinistra e destra nel Parlamento europeo durante il dibattito con il premier Tsipras mi ha impressionato: molto simbolica. È una alleanza che in passato ha preceduto le più grandi tragedie nella Storia europea, che coltiva un sentimento anti-europeo, in contrasto con la tradizionale visione dell’Europa. È anti-liberale e anti-mercato.
Si discute molto della sostenibilità del debito greco. Il Fondo monetario internazionale ne ha suggerito a gran voce un alleggerimento, se non una ristrutturazione. Che idea si è fatto?
La questione del debito è un problema globale. Non è un fenomeno solo greco. Anzi, se si mettono insieme debito pubblico e debito privato paesi come l’Irlanda, il Belgio o l’Olanda hanno problemi anche loro. Non mi sembra che dobbiamo parlare oggi di un alleggerimento del debito greco (debt relief in inglese, ndr). Non dimentichiamo che abbiamo già fatto una ristrutturazione del debito greco in mani private.
La crisi greca dimostra la necessità di riformare la zona euro.
Assolutamente, e abbiamo infatti le linee-guida contenute nel rapporto dei cinque presidenti (delle principale istituzioni europee, ndr). Dobbiamo evitare il rischio di annunciare enormi cambiamenti e dire che tutto è squalificato. La storia della crisi dimostra che bene o male la zona euro funziona, con la cooperazione dei paesi a livello nazionale. Basti guardare al caso irlandese o a quello portoghese. Le crisi dopotutto sono un fenomeno naturale, e io credo all’evoluzione non alle rivoluzioni. Qui a Bruxelles è facile discutere di cessioni di sovranità. Il problema è affrontare la questione a livello nazionale.
Sembra considerare le idee di Paul Krugman radicali, pericolose per l’Europa.
Vi sono idee intellettualmente molto brillanti, ma che purtroppo non hanno molto a che fare con la realtà politica. Abbiamo bisogno di nuove idee perché le sfide sono nuove, ma abbiamo bisogno soprattutto di una discussione che sia realistica e pragmatica. Se devo cercare ispirazioni per trovare soluzioni sagge e responsabili alla crisi di oggi, guardo ai pensatori ordoliberali tedeschi, molto pragmatici, nessuna ideologia, senza illusioni. Insomma, mi sembra che ci sia troppo Rousseau e Voltaire, e non abbastanza Montesquieu.
Ma il suo approccio minimalista non è rischioso?
È evidente che abbiamo bisogno di misure di breve termine. La mia intenzione è di mettere alla prova i paesi prima di tutto su uno schema unico di garanzia dei depositi. Ciò detto, ci sono due estremi nel dibattito europeo: i federalisti radicali e coloro anti-Europa. La mia idea è che bisogna proteggere tutto quello che è tra queste due posizioni. Per me, il futuro sicuro dell’Europa è tra queste due visioni radicali. Questa posizione non è teorica: riflette anche l’umore reale della gente.
Eppure, la questione di una modifica dei Trattati è sul tavolo.
Dobbiamo iniziare sostanziali discussioni sui Trattati perché il problema dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione è sul tavolo, ma suggerisco di evitare il desiderio di una discussione su cambiamenti rivoluzionari. Anzi, la mia intuizione è che nessuno dei leader è pronto a discutere in dettaglio modifiche ai Trattati.