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 2015  luglio 17 Venerdì calendario

Niente di nuovo sul fronte orientale. «Cara mamma, la guerra non serve a nulla. Neanche alla letteratura». Escono le lettere di Renato Serra che cento anni fa morì sull’Isonzo

Il 20 luglio 1915, un secolo fa, Renato Serra cadeva sul Podgora: aveva trent’anni e quel giorno aveva scritto una lettera a sua madre. Poche righe, anzi: «Un saluto in fretta…niente di nuovo: le solite vicende di temporale e di sole, e lo spettacolo di un’azione che si intravede e si sente rumoreggiare sui monti circostanti…». Di Serra, Elliot propone ora “Lettere dal fronte” con una introduzione di Massimo Onofri. A chi scrive Serra? Alla madre e al fratello, alla cugina Tina, ma anche, o forse sarebbe giusto dire soprattutto,
agli amici della Voce (De Robertis, Papini), a Benedetto Croce, a Panzini. Alla Voce, partendo, Serra ha lasciato uno scritto meditato a lungo, nel corso delle ultime settimane, e corretto ancora sulle bozze, quell’Esame di coscienza di un letterato, pubblicato dalla rivista il 30 aprile, che inevitabilmente è diventato il suo testamento in pubblico. Lo si rilegge sempre con un po’ di malinconia. Il critico è convinto che la guerra non avrebbe cambiato la letteratura, non vi avrebbe aggiunto nulla, anzi sarebbe stata occasione di pagine retoriche e magari anche scadenti. È vero, aggiunge Serra, D’Annunzio aveva ripreso quota con la guerra, ma non era cambiato in niente e neppure i letterati francesi si erano distinti per qualcosa di nuovo. E Croce?, che alla guerra era fortemente contrario, appare a Serra «impiccolito… sequestrato in una acredine di pedagogo». E allora che cosa cambierà? «Che cosa è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abbandonati dormiranno insieme sotto le zolle, e l’erba sarà tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavera che è sempre la stessa?» È l’immagine ripresa da Ermanno Olmi con il suo ultimo film Torneranno i prati (2014) ispirato ad un racconto di Federico De Roberto, La paura. La guerra è inutile. Ma allora perché andare in guerra? Le motivazioni furono diverse. Molti italiani vissero la partecipazione alla Grande Guerra come un dovere morale e vi andarono volontari. E molti intellettuali ne fecero invece un fatto estetico e corteggiarono la guerra esaltando il bagno di sangue, glorificando la Morte. Papini e tutto il gruppo di Lacerba si lanciarono in una campagna che oggi si legge solo con raccapriccio. La guerra piaceva anche ai futuristi. Non piaceva ai socialisti, ma poi Mussolini cambiò parere e divenne interventista. Il fascismo si sarebbe incaricato di coltivare la retorica bellica gestendo i monumentali cimiteri dedicati ai troppi caduti. Serra non avrebbe visto tutto questo: la sua adesione fu di un genere diverso e assolutamente non gridato. Semplicemente sentiva di dover andare, di essere come gli altri, perché questo era il destino della sua generazione: un destino che lo attendeva. Mancare quell’appuntamento sarebbe stato in qualche modo fatale. Così, insieme ai suoi fratelli soldati, Serra, che aveva già avuto esperienze militari, respinge i pensieri che corrono sulle bocche degli uomini rimasti in città. Il suo ragionare corre dall’antichità al presente e tutto diventa effimero eppure inevitabile. «Il presente mi basta; e non voglio né vedere né vivere al di là di questa ora di passione. Comunque debba finire, essa è la mia; e non rinunzierò neanche a un minuto dell’angoscia e dell’attesa, che mi appartiene».
Renato Serra, il “lettore di provincia”, legato alla sua Cesena dove era diventato bibliotecario alla Malatestiana, incarna bene la figura del critico che cerca nella letteratura una sua verità, che interagisce con il testo, ogni volta prendendo le misure innanzitutto a se stesso. Si era dedicato a Kipling, a Carducci e ai molti letterati del suo tempo. Un tempo ricco di fermenti e di tensioni. Il tema dell’esame di coscienza non nasce solo a ridosso della guerra e della partenza per il fronte. Quando (1910) con Luigi Ambrosini progetta la rivista Neoteroi, che poi non si fece, lo avverte: «Non aver paura delle lacune, dell’incompiutezza; aver gusto e interesse per tutto è il segno del cattivo gusto».
«Credo che abbia ragione De Robertis; quando reclama per sé e per tutti noi il diritto di fare letteratura, malgrado la guerra…» Così si apre l’ Esame di coscienza e subito arriva l’ammissione: «La guerra … Son otto mesi, poco più poco meno, ch’io mi domando sotto quale pretesto mi son potuta concedere questa licenza di metter da parte tutte le altre cose e di pensare solo a quella».
L’ Esame è una partitura musicale, con i rumori della guerra che si avvicinano e si allontanano e le ragioni che ora paiono impellenti e poi, con il metro della storia dell’umanità, scadono a nulla e si dileguano. Ma il motivo di fondo resta il non mancare al proprio appuntamento fatale: «Fra mille milioni di vite, c’era un minuto per noi; e non l’avremo vissuto». «Una docile fibra dell’universo» avrebbe detto in altra occasione di sé Ungaretti che viene in mente per la contiguità delle vite e delle esperienze.
Quando arrivò la notizia della morte di Serra, la Voce preparò un numero speciale e l’ Esame divenne un volumetto bianco con la notizia della morte dell’autore in copertina. Non sarebbe stato dimenticato, anzi. La sua eredità fu discussa: Gramsci lo paragonò, sbagliando, a De Sanctis, Croce lo descrisse come un decadente amante dell’irrazionale e Contini riprese tanti anni dopo (1947) proprio quel tema, misurandosi con il Serra lettore di testi. Ezio Raimondi nei suoi saggi ne fece un interlocutore costante, Mario Isnenghi curò per Einaudi un’edizione delle opere. Non è esagerato dire che nel tempo Serra è diventato un curioso eroe delle lettere, un protagonista che esce dal proprio tempo pur essendovi fortemente legato. Forse la chiave più interessante è quella di Francesco Arcangeli (citato da Raimondi) che lo paragona a Giorgio Morandi. La poesia che nasce in un angolo appartato, caparbia, ostinata e tutta presa dai propri oggetti. La provincia che si confronta con il mondo e vince la partita.