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 2015  luglio 17 Venerdì calendario

Aeroporti, il decollo è d’oro. È iniziata la corsa per hub sempre più grandi. Perché è dai terminal che passa il business mondiale. La Cina ne ha costruiti 80 in dieci anni. E Londra si prepara a dotare Heathrow di una terza pista. Tra le polemiche

«Dovranno passare sul mio corpo», avverte il sindaco Boris Johnson, minacciando di stendersi letteralmente davanti ai bulldozer. Il primo cittadino di Londra non è il solo ad opporsi al rapporto che raccomanda di costruire una terza pista a Heathrow: a promettere battaglia ci sono deputati conservatori e laburisti, associazioni ambientaliste e almeno 200 mila persone nelle immediate vicinanze dell’aeroporto. L’altro giorno un gruppo di attivisti ha anticipato Johnson, andando a sdraiarsi sulle due piste esistenti nel più grande aeroporto britannico e d’Europa, bloccando il traffico e ritardando voli per ore, prima di essere portati via dalla polizia. Ma nei dieci anni impiegati da una commissione governativa a pubblicare il rapporto sul grande hub aeroportuale londinese, la Cina di aeroporti ne ha costruiti ottanta nuovi di zecca e quello di Dubai ha triplicato la capacità di passeggeri dei suoi terminal. «Se Londra non si sbriga ad allargare Heathrow, sarà tutta l’economia nazionale a non decollare», avverte l’ Economist. La corsa ad arricchirsi, nel mondo globa-lizzato, passa anche dal cielo: e a quanto pare sarà il gigantismo a deciderla.
Quando una metropoli vanta mezza dozzina di aeroporti internazionali, si potrebbe credere che ne abbia abbastanza. Londra ne ha due a sud (Heathrow e Gatwick), due a nord (Stansted e Luton), uno sul Tamigi (il City Airport) e uno quasi alla foce del fiume (Southend). Tutti insieme, l’anno scorso hanno ospitato oltre 160 milioni di passeggeri, facendo della capitale britannica la città con più traffico aereo del pianeta, davanti a New York (130 milioni), Tokyo (110 milioni), Parigi, Atlanta, Chicago, Pechino, Los Angeles, Shangai e Istanbul. Eppure i sei aeroporti londinesi non bastano più, sostengono gli esperti: sono pieni da scoppiare, subiscono continui ritardi e devono ridurre i collegamenti interni con Manchester, Liverpool, Edimburgo. Rischiando di perdere la leadership del settore, superati dal nuovo che avanza: i paesi emergenti.
In effetti il sorpasso è già avvenuto: se la graduatoria, anziché sulle città, si concentra sui singoli aeroporti, nel 2015 Dubai diventerà il primo del mondo, con 75 milioni di passeggeri internazionali (+ 5,2 per cento rispetto al 2014 – ed erano appena 23 milioni nel 2005), davanti a Heathrow con 70 milioni (+ 2,2), Hong Kong con 65, Parigi Charles De Gaulle con 59, Amsterdam con 57 e Singapore con 55. Dal punto di vista geografico, Londra ha il vantaggio di trovarsi per così dire a metà strada fra le Americhe e l’Asia: un viaggio da Boston a Shangai richiede il 20 per cento di tempo in più, se passa per Dubai invece che dalle parti del Big Ben. Ma per gli affari e tutto l’indotto che si tirano dietro non conta soltanto il tempo dei voli: ha importanza anche il loro numero. L’anno scorso c’erano 40 voli alla settimana dalla Gran Bretagna alla Cina, in confronto a 60 dalla Francia alla Cina e a 80 dalla Germania. Quanto all’aeroporto del Dubai, nel 2025, se continua a crescere a questo ritmo, avrà raggiunto quota 150 milioni di passeggeri, minacciando da solo l’egemonia dei sei aeroporti londinesi messi insieme. Una corsa alla crescita a velocità supersonica, è il caso di dire, in cui Londra rischia di rimanere indietro. E se la rotta fra America e Estremo Oriente passa dal Golfo Persico, invece che dall’Europa, sarebbe tutto il vecchio continente a rimetterci.
Quando Heathrow fu inaugurato, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, era una pista di fango con qualche tenda a fare da terminal. Sessant’anni più tardi, i suoi cinque terminal, in particolare l’ultimo, l’avveniristico Terminal 5, sono una città satellite di Londra, in cui lavorano 100 mila persone e da cui transitano 200 mila passeggeri al giorno, con tre fermate sotterranee del metrò, una decina di alberghi e shopping center, negozi, ristoranti, caffè a profusione. Il rapporto della commissione presieduta dall’economista Howard Davies prevede che costruire una terza pista d’atterraggio raddoppierebbe i posti di lavoro in un decennio ed entro il 2050 aggiungerebbe lo 0,75 per cento al pil di tutta la Gran Bretagna. Ma non ci guadagnerebbero tutti. Almeno 800 case dovrebbero essere demolite per fare spazio ai 3 chilometri di pista: i proprietari verrebbero compensati, ma a chi piace traslocare per fare posto a un Boeing? E centinaia di migliaia di persone nella parte sud di Londra sarebbero colpite dal rumore dei jumbo jet (anche se il rapporto propone di vietare i voli dalle 23:30 alle 6 del mattino). Boris Johnson è stato rieletto sindaco con la promessa di opporsi a una nuova pista ad Heathrow; e del resto vi si opponeva anche David Cameron, quando diventò leader dell’opposizione nel 2007: «Niente se e niente ma», disse, «una terza pista ad Heathrow non si farà». Ora potrebbe avere cambiato idea per ammantarsi dell’etichetta di premier pro-business, ma cinque ministri del suo governo sono fermamente contrari, così come un drappello di parlamentari di vari partiti – tutti eletti in circoscrizioni nei pressi di Heathrow.
L’alternativa esisterebbe: costruire una terza pista a Gatwick, secondo maggiore aeroporto di Londra, più distante dalla capitale. L’indotto in termini di posti di lavoro e ricavi sarebbe minore, ma sarebbero inferiori anche rumore e inquinamento. Il sospetto è che, per non scontentare nessuno, Cameron rinvierà ancora una volta la decisione, magari commissionando un nuovo rapporto. Ma intanto la città con più aeroporti d’Europa e più passeggeri d’aereo sulla terra si sente sfidata da Pechino, Dubai, Istanbul. Volare è uno dei verbi che coniugano la supremazia del futuro, mentre il mondo, per dirla con la celebre canzone, pian piano sparisce lontano laggiù.