La Stampa, 17 luglio 2015
Ti ricordi che bella la grafica italiana anni ’80-’90? Una mostra a Pesaro su Massimo Dolcini ricostruisce una stagione felice di creatività e lavoro sociale, poco prima dell’ondata postmoderna
Nel 1981 si svolge a Milano presso la Società umanitaria un convegno dal titolo «La grafica di pubblica utilità»; tre anni dopo a Cattolica la I Biennale di Grafica ha come tema «Propaganda e cultura: indagine sul manifesto di pubblica utilità dagli anni Settanta a oggi». Ad animare questi dibattiti un gruppo di artisti, intellettuali, operatori visivi, come si chiamano all’epoca: Giovanni Anceschi, Aldo Colonnetti, Gaddo Morpurgo, Lamberto Pignotti. Siamo in un punto di passaggio della società italiana, all’approdo verso una società post-ideologica segnata dall’avvento della cultura postmoderna.
Non è forse un caso che questi intellettuali, e i grafici a loro collegati in vario modo (Carmi e Ubertis Associati, Franco Origoni, Anna Steiner, Studio Disegno, Elena Green, Extrastudio, Comunication e altri), sentano la necessità di dare al mestiere di grafico una nuova identità, o meglio: un nuovo spazio d’azione. Disegnano con il termine «pubblica utilità» la comunicazione e la propaganda politica relativa alla sfera culturale, sociale, educativa, che vuole distinguersi dalla pubblicità tout court. I committenti di questa comunicazione visiva sono le pubbliche istituzioni, le biblioteche, gli assessorati alla Cultura, i teatri, le amministrazioni in generale che si proiettano in una nuova dimensione nel rapporto diretto con i cittadini non più mediato solo dai tradizionali corpi intermedi, quali partiti, sindacati, associazioni di categoria, ma anche istituzioni come la chiesa cattolica.
Sono in qualche misura gli effetti sociali e politici del Sessantotto, cui queste personalità della cultura e del design hanno partecipato da giovani e che traducono in un nuovo modo di fare cultura attraverso il mestiere di grafico. Sarà questo un momento di grande vitalità culturale, al giro di boa degli Anni Ottanta, a cui Alfabeta, la rivista di Nanni Balestrini, Maria Corti e Umberto Eco, imprimerà un segno culturale significativo, insieme a uno degli organizzatori culturali più creativi dell’epoca, Gianni Sassi, animatore anche de La Gola, disegnata da Massimo Dolcini.
Un intento pedagogico e professionale segna questo momento. Anceschi, che viene dalla Scuola di Ulm, dopo la Bauhaus la scuola di grafica più importante del novecento europeo, uno dei teorici del momento, è interessato alla segnaletica, all’informazione e promozione dei servizi sociali attraverso gli strumenti propri della comunicazione visiva.
Di questo momento di passaggio, che politicamente e socialmente corrisponde alla fine del terrorismo di sinistra, all’ascesa di Bettino Craxi, alla nascita della televisione commerciale e all’avvento del personal computer, che decreterà di lì a poco la fine dei lavori tradizionali, Massimo Dolcini ne è uno degli esponenti di maggior rilievo.
La mostra che si è aperta a Fano, a lui dedicata, «Massimo Dolcini. La grafica della cittadinanza consapevole» (Galleria Carifano, palazzo Corbelli, fino al 10 settembre, e poi alla Galleria del Credito Valtellinese a Sondrio in primavera-estate 2016), fa il punto su uno dei grafici che più hanno lavorato in questa direzione in un momento di passaggio.
Dolcini ha operato soprattutto nelle Marche con il marchio di Fuorischema, e poi come Dolcini Associati, a Pesaro e nel suo territorio, nel momento in cui la Terza Italia, come l’avevano definita Giorgio Fuà e gli economisti di Ancona, s’imponeva come un distretto territoriale che competeva con le grandi città del Nord. Il lavoro più famoso di Dolcini è la serie dei manifesti per il Rossini Opera Festival del Comune di Pesaro, galleria ironica e sapiente di ritratti del grande musicista realizzata dal 1980 al 2000, non a caso sponsorizzata da Scavolini, il produttore di cucine, per cui Dolcini lavorava.
Lo stile del grafico pesarese comincia dopo il 1969 e sotto l’egida di due maestri della comunicazione visiva, Albe Steiner e Michele Provinciali, entrambi docenti al Corso superiore di Arti Grafiche di Urbino. Mario Piazza, grafico e studioso del mestiere, a sua volta erede di quella tradizione di «pubblica utilità», definisce quello di Dolcini un «lavoro sartoriale». In effetti, lavora con il taglia e cuci, riusando immagini preesistenti, ricalcandole, copiandole, modificandole, montandole. C’è sempre nel suo segno la presenza del gesto del disegnatore che aggiusta, rifà, ripassa, così che le sue immagini, anche quando sembrano semplici e lineari, sono invece stratificate e complesse.
Cita, come accadeva allora nel postmoderno, ma lo fa appunto con ironia; una sorta di sottotono che abbassa la «serietà» del messaggio, e tende a raggiungere il pubblico ammiccando a qualcosa che conosce già o che, e qui sta l’abilità del grafico, conoscerà proprio attraverso il suo manifesto o la sua brochure: impara guardando. Così ammiccando e ironizzando il suo messaggio contiene sempre qualcosa di giocoso, la sua grafica ricorda da vicino quella dei libri per l’infanzia.
Come ricorda Piazza nel catalogo, Dolcini usa la ricerca iconografica come strumento essenziale: antichi trattati, manuali, erbari, raccolte d’incisioni, enciclopedie. Il suo è un pop grafico e tipografico, cui non è estranea il sarcasmo tipico dei romagnoli (Pesaro è città più romagnola che marchigiana, o almeno al confine tra due regioni differenti di cui una, le Marche, è al plurale). Si tratta di un’illustrazione che traghetta gli Anni Settanta con i suoi manifesti appesi sui muri verso la comunicazione più friendly del postmoderno maturo, che non a caso avrà di lì a poco a Milano, e non nella pur ricca Terza Italia, il suo baricentro estetico e culturale.