Corriere della Sera, 16 luglio 2015
Quei numeri da zio Paperone nell’era di Internet delle cose. Nel 2020 50 miliardi di lavatrici, frigoriferi, automobili e sensori saranno collegati tra loro. Internet raddoppia in termini di oggetti ogni 5,32 anni
Internet of Things, l’Internet delle cose. La memoria collettiva moderna (Google...) non si ricorda chi ha deciso di battezzarlo così, anche se si sa dove tutto ebbe inizio: l’Auto-Id Center, consorzio di ricerca presso il Mit di Boston. Era il 1999. Un millennio fa. Internet delle cose è una sintesi efficace, anche un po’ magica. Ma nasconde il vero senso dell’evoluzione che stiamo vivendo: l’Internet delle cose dovrebbe chiamarsi Internet senza uomini.
Perché di questo si tratta: far parlare gli oggetti tra di loro, che siano lavatrici, frigoriferi, automobili o sensori sparsi in giro per la città, senza l’intermediazione dell’uomo. Non c’è nessuno a spingere bottoni, a schiacciare il tasto «enter». L’Internet delle cose – che è già intorno a noi – è la naturale evoluzione del machine-to-machine. Un ritorno ai primordi di Internet quando fu creato lo standard per far dialogare le macchine tra di loro (il protocollo Internet Ip) e anche quello per far dialogare i documenti (l’ipertesto o world wide web). In effetti la Rete è fatta da questi due pezzi, nati da padri diversi in momenti diversi.
Il primo viene considerato frutto del lavoro di Vincent Cerf, oggi guru di Google, e Robert Khan tra il 1973 e il 1978. Per curiosi e appassionati di aneddotica: i primi due computer a «chiacchierare» tra di loro furono quelli dell’Università della California (Ucla) e dello Stanford Research Institute. Leonard Kleinrock dell’Ucla segnò sul proprio diario che le due macchine si scambiarono il primo messaggio alle 22.30 del 29 ottobre 1969.
Il secondo pezzo, l’ipertesto, fu inventato invece dall’uomo più «generoso» del mondo: Tim Berners-Lee, un ingegnere inglese trasferitosi a Boston per insegnare presso il Mit. A lui si deve nel 1980 il primo rudimentale browser e il primo web server, il Cern Httpd. Sempre per gli appassionati il prototipo di www si chiamava Enquire e il primo sito al mondo, sempre suo, fu «info.cern.ch» la pagina web del Cern di Ginevra, andata online il 6 agosto 1991. C’è un bel pezzo d’Europa in Internet anche se tutti siamo portati a pensarla come un’invenzione americana.
Berners-Lee fu l’uomo più generoso del mondo perché decise di non brevettare le proprie invenzioni per assicurarne la diffusione globale.
Ma facendo un balzo temporale fino al 2012 per permettere all’Internet delle cose di crescere serviva un terzo tassello. Il salto è stato reso possibile grazie a un numero strabiliante: trecentoquaranta trilioni di trilioni di trilioni: un numero che fino ad ora avevamo letto solo nelle storie di zio Paperone e che quantifica la nuova «dimensione» di Internet. Nel 2012 con il passaggio del protocollo Internet dalla versione 4 (Ipv4) alla versione 6 (Ipv6) il numero degli indirizzi unici della Rete è diventato potenzialmente espandibili dai «vecchi» 4,3 miliardi fino a questa grandezza irraggiungibile: 34 seguito da 37 zeri. Si stima che con il nuovo protocollo ci saranno 100 indirizzi per ogni atomo del mondo, circa 50 seguito da 27 zeri per ogni essere umano.
Un po’ troppi per 7 miliardi di persone, certo, ma non per miliardi di «cose». L’attesa per il 2020 è di 50 miliardi di oggetti collegati. Internet raddoppia in termini di oggetti ogni 5,32 anni, un dato che conosciamo con precisione perché ogni oggetto ha un «Mac address», un sotto-indirizzo che ci permette di individuarne il numero esatto.
Insomma, quell’Internet immaginato con l’Ipv4 solo nel 1981 oggi era già troppo piccolo! Allora nessuno aveva immaginato a cosa saremmo andati incontro e dunque era sembrato ragionevole implementare un sistema a 32 bit, suddiviso in 4 gruppi da 8 bit separati ciascuno da un punto (più facile leggerlo che scriverlo: 10101010.10101010.10101010.10101010). Le combinazioni possibili con questo sistema erano appunto 4,3 miliardi, una capacità di spazio che abbiamo sostanzialmente saturato.
D’altra parte se solo pochi anni addietro qualcuno ci avesse detto che volevamo collegare tutti gli oggetti del mondo con Internet lo avremmo preso tutti per matto.