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 2015  luglio 16 Giovedì calendario

I sei arbitri dei lodi Longarini si sono spartiti 16 milioni di euro. E proprio in forza di questi lodi Longarini ha chiesto un maxi risarcimento di quasi due miliardi. Oggi il verdetto

Preparate i soldi: 31 euro e 6 centesimi a testa. Ecco quanto ogni italiano dovrà sborsare se la Corte d’appello di Roma non metterà oggi fine a una catena stupefacente di orrori buro-giudiziari.
I giudici devono decidere se imporre o meno allo Stato di pagare quasi due miliardi (due miliardi!) a Edoardo Longarini, il «re di Ancona» condannato per truffa ai danni dello Stato e graziato solo dalla prescrizione. Soprattutto a causa di uno scellerato arbitrato che ha visto gli arbitri decidere di spartirsi, in tre, 12 milioni di euro: quattro milioni a testa! Quaranta volte più di quanto fissato dalla legge. 
Riassunto. Il costruttore, detto per i modi bruschi«Al Cafone», fu benedetto quando la Dc dominava a Roma e nelle Marche da un regalo: riesumata una legge del 1929 sulla «ricostruzione post bellica», lo Stato decise di abolire le gare d’appalto per dare i lavori pubblici ad Ancona e Macerata dopo il terremoto del ‘72 e la frana dell’82 a un unico «concessionario», lui. Con l’aggiunta di strabilianti regolette delle quali il nostro approfittò facendosi dare anticipi del 75%, fissando prezzi del 477% più alti di quelli Anas, strappando tassi d’interesse del 20,5%... Un andazzo tollerato per anni finché «Al Cafone» finì in manette per truffa allo Stato. Con parallela disdetta della concessione. Dieci anni in primo grado, quasi quattro in appello. Ma si sa come vanno le cose: di rinvio in rinvio arrivò la prescrizione. Fu così che cominciò a battere cassa chiedendo i danni per i lavori iniziati e non finiti, per il mancato guadagno su quelli che avrebbe potuto fare e perfino per «danno all’immagine». Lui! Condannato, ricondannato e salvato solo dalla prescrizione. 
Ma se i tempi lunghissimi dei processi gli avevano fatto comodo per far evaporare le condanne, gli erano insopportabili nell’attesa dei soldi che pretendeva. E che un paio di contestatissime sentenze gli avevano riconosciuto, senza fissare cifre. Decise così di chiedere, per tre «pendenze» principali (lavori ad Ancona, Macerata e Ariano Irpino) tre «arbitrati». Ricordate? Se chi ha fatto un lavoro per un ente pubblico va in lite sui soldi con chi glielo ha dato può chiedere che a stabilire le ragioni e i torti non siano i lentissimi tribunali civili ma una sorta di giurì. Un arbitro lo nomina un litigante, uno quell’altro e i due insieme nominano il presidente. 
Sulla carta, benissimo. Nei fatti, un suicidio dello Stato. Primo, perché gli arbitri sono spesso funzionari pubblici o addirittura magistrati che magari lasciano ammuffire il lavoro quotidiano per dedicarsi a questo orticello. Secondo, perché se danno ragione all’ente pubblico, cioè allo Stato, incassano due noccioline, se la danno al privato possono guadagnare cifre astronomiche. Come può finire, secondo voi? Coincidenza: il privato vince nel 94,6% dei casi. E lo sa perfettamente chi negli anni si è alternato al governo. Tanto che gli arbitrati, un inquinamento del sistema degli appalti, dei lavori pubblici, della politica e della stessa magistratura, sono stati più volte aboliti e ripristinati, aboliti e ripristinati in modo più o meno ambiguo. Una schifezza. 
Ricostruire passo passo il dossier Longarini, mezzo secolo di appalti, denunce, processi, sentenze, arbitrati e stranezze varie farebbe stramazzare anche il lettore più paziente. Ma alcuni passaggi, sottolineati anche data per data e anomalia per anomalia in un letale «promemoria» firmato da Raffaele Cantone al procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, sono davvero inquietanti. 
Ricordate, ad esempio, il 25 giugno 2007? I giornali parlavano dell’addio di Tony Blair, del caldo asfissiante, della finale di Miss Italia. Non potevano sapere che quel giorno, al ministero delle Infrastrutture, stavano battendo (altro che burocrazia lumaca!) il record mondiale della velocità dei passacarte. Neanche il tempo di ricevere la domanda di arbitrato di «Al Cafone» per Macerata (arbitro suo Vito Gamberale) e Antonio «Speedy» Di Pietro nominava il proprio, il dipietrista Domenico Condello. La mattina dopo (record planetario bis) concordavano insieme il presidente: Carlo Malinconico, segretario generale a Palazzo Chigi. Un conflitto di interessi mostruoso, solo più tardi chiuso con le dimissioni. E poco dopo il collegio già si riuniva. Ventiquattro ore e la richiesta di Longarini era già esaudita. Wow! 
Il tutto prendendo in contropiede l’avvocato generale dello Stato, Marco Corsini. Il quale era contrario e l’aveva scritto, invitando Longarini a rivolgersi al giudice ordinario. Niente da fare. Avrebbe raccontato a Giacomo Amadori di Panorama : «Fu Di Pietro, in persona, a decidere» e «lo fece in tempi così rapidi da vanificare la declinatoria e tutte le eccezioni che avevo sollevato. Una celerità che non avevo mai sperimentato». Perché l’avvocatura era contraria? «L’arbitrato è un giudizio sempre sfavorevole per l’amministrazione, soprattutto in controversie di così grande valore». 
Altro passaggio anomalo: cosa fanno i tre arbitri per il lodo di Ariano Irpino, cioè Vincenzo Nunziata (presidente), l’avvocato dipietrista Ignazio Messina voluto da Di Pietro per il ministero e Gamberale per Longarini? Decidono che il caso Macerata è simile. E «in ragione della suddetta attinenza» si auto-nominano arbitri anche per questo lodo. Un affare. Per Longarini (al quale danno ragione in entrambi i casi decidendo che lo Stato deve dargli 250 milioni di euro) e per se stessi: 2.535.462 da spartire (lodi attinenti ma parcelle separate…) coi segretari. Nonostante l’art. 41 del decreto legislativo n. 163 del 2006 dica che «il compenso per il collegio arbitrale, comprensivo dell’eventuale compenso per il segretario, non può comunque superare l’importo di centomila euro». 
Ma è il caso di Ancona, ricordano due interrogazioni di Donatella Agostinelli e altri grillini con l’aiuto anche di Eugenio Duca, lo storico censore di «Al Cafone», a essere ancora più incredibile. I tre arbitri scelti dalle parti, il consigliere di Stato Aldo Pezzana (presidente), l’avvocato dello Stato Aurelio Vessichelli per il ministero e Gaetano Longobardi per Longarini, infatti, scelgono compatti di ordinare allo Stato di versare al costruttore un miliardo e duecento milioni euro e rotti. Cioè quattro volte di più delle pretese iniziali di «Al Cafone» che aveva chiesto l’arbitrato inizialmente per 300 milioni. A corollario, i tre decidono come dicevamo di auto-riconoscersi, per il disturbo, 12 milioni di euro. Quattro a ciascuno. Quaranta volte di più del tetto fissato. Quanto uno statale medio non riesce a prendere neanche se vivesse tre vite intere. 
Mettete insieme tutti gli arbitrati, più interessi, e arriviamo, appunto, a quella cifra mostruosa chiesta dal costruttore al ministero dell’Economia: un miliardo, 888 milioni e 495.275 euro. Quanto ai collegi, tre lodi hanno portato complessivamente nelle tasche di sei arbitri e sei segretari 16 milioni e 355 mila euro. Poveretti, se avessero dato ragione allo Stato...