Corriere della Sera, 16 luglio 2015
La fuga del Chapo. Sei mesi fa in una fattoria vicino al carcere è stato aperto un cantiere. Hanno scavato un tunnel di 1 chilometro e 350 metri, dentro c’erano dei binari e una moto. Così il boss dei narcos è riuscito a farla franca per la seconda volta
È il marzo 2014. Le antenne della Dea, il servizio antidroga statunitense, captano conversazioni interessanti. A parlare sono i membri del cartello di Sinaloa, vogliono far evadere il loro capo, Joaquin «El Chapo» Guzmán, da Altiplano, il carcere messicano dove il boss è rinchiuso da un mese.
Gli americani continuano a tracciare i narcos e trovano altri elementi. Il figlio del padrino, Ivan, ha ingaggiato avvocati ed ex militari per comprare la loro complicità. Dal Texas gli informatori segnalano manovre strane. Arriva una nota anche dalla divisione di Los Angeles, coinvolge il clan Quintero, altro nome celebre del mondo narcos. Si stanno interessando alla sorte del «Chapo».
Certo, sono indicazioni vaghe, che puntano però in una sola direzione. A Città del Messico dovrebbero stare in guardia, invece nulla si muove. O meglio l’unica mossa vera la compie Joaquin. Sabato il leader di Sinaloa scappa attraverso un incredibile tunnel, testimonianza sotterranea dell’ingegno e della risolutezza di chi è abituato a vivere sulla lama del rasoio.
Lavori misteriosi
Se avessero dato retta ai gringos, i messicani avrebbero aumentato le ispezioni attorno alla prigione, con alte mura, torrette, 750 telecamere interne e 26 punti di controllo. Soprattutto, dovevano buttare un occhio su una fattoria in costruzione poco lontano dalla recinzione del penitenziario.
Qui, sei mesi fa, è arrivato quello che gli abitanti della zona hanno ribattezzato El Pastor, il pastore. Un «forestiero cortese» che ha aperto un cantiere. Prima ha gettato le fondamenta di una struttura in cemento, poi ha alzato un muro di cinta per occultare quello che combinava all’interno.
Infine il colpo da maestro: lo scavo del tunnel. A chi chiedeva cosa stesse facendo, rispondeva: «Devo finire la casa».
Però passavano le settimane, passavano anche decine di mezzi carichi di terra, e l’edificio grigio era sempre nelle stesse condizioni. Un via vai di mezzi che si confondeva con l’attività di una ditta che doveva installare grosse tubature.
Il progetto, autorizzato, ha coperto il rumore causato dai minatori del «Chapo» e anche mimetizzato i metri cubi di terra strappati dal sottosuolo. Quanti? Sui media hanno scritto che sono serviti non meno di 360 viaggi di camion.
Sotto la doccia
Protette da quei lavori, le «talpe» hanno realizzato un tunnel lungo un chilometro e mezzo, con un ingresso nel pavimento del «fienile», alto un metro e 70, largo 80 centimetri, dotato di luci e tubi per il passaggio dell’aria. Con un tocco finale, tipico della fantasia criminale che agisce sul Rio Grande: una rotaia sulla quale correva una piccola moto modificata.
I minatori hanno costruito la galleria fino ad arrivare sotto la prigione, a circa 19 metri di profondità. Da questo punto hanno aperto un condotto che ha raggiunto le celle.
Agendo in base a informazioni che soltanto qualcuno dall’interno può avergli dato, gli «amici» di Guzman sono sbucati alla perfezione sotto il piano doccia della cella numero 20, lungo il corridoio 2 della sezione «Trattamenti speciali». Ad attenderli c’era proprio il boss.
La strana motoretta
Alle 20.52 di sabato le telecamere a circuito chiuso del penitenziario lo inquadrano. Lui si è cambiato le scarpe e si è infilato dietro un muretto che ospita i servizi-doccia.
È un punto dove le telecamere vedono solo in parte per «rispettare i diritti» dei detenuti. Una concessione fatale, perché il padrino l’ha usata per infilarsi nella botola – 50 centimetri per 50 – aperta dai suoi uomini. Uno spazio sufficiente per «El Chapo», il corto.
A questo punto il prigioniero matricola 3578 ha utilizzato una scala di legno – costruita sempre dai complici – ed è sbucato nel tunnel. Poi per accelerare i tempi è probabile che Guzman abbia usato la motoretta (o un carrello trainato) mentre i «minatori» hanno lasciato al buio la via segreta.
La porta della libertà era ormai vicina. Joaquin è sbucato all’interno della fattoria, sempre attraverso un cunicolo collegato alla superficie da un’altra scala di legno con una ventina di gradini.
All’esterno – secondo un contadino – c’erano due Suv scuri, forse impiegati per l’ultimo segmento della Grande Fuga.
Tra l’ammirato e l’arrabbiato, gli specialisti dell’antidroga sottolineano come sia costata molto ed abbia richiesto una lunga pianificazione. Aspetti che non hanno preoccupato minimamente la gang.
Un episodio, non collegato, aiuta a capire. Lunedì i militari messicani hanno bloccato un Tir entrato nel Paese dal confine con l’Arizona. Trasportava tredici milioni di dollari in contanti suddivisi in 306 pacchetti. Uno dei tanti tesoretti a disposizione dei narcos.