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 2015  luglio 16 Giovedì calendario

Ma ora Obama deve vedersela con i repubblicani. Il Congresso ha 60 giorni per esaminare il testo, compresa la pausa programmata ad agosto. Il momento decisivo, quindi, arriverà agli inizi di settembre. Biden, però, sta già facendo i calcoli, soprattutto per il Senato: i democratici sono 46, gli «scettici» più o meno 12. Il presidente dovrebbe farcela, ma i margini sono veramente stretti

Il vicepresidente Joe Biden non si stacca dal telefono: chiama uno a uno i senatori democratici. La Casa Bianca è già immersa nel dibattito parlamentare sull’accordo con l’Iran. Biden ha cominciato ieri pomeriggio con il più scettico di tutti, Chris Coons, eletto nel Delaware. 
Barack Obama, invece, sta cercando di alzare al massimo il livello della discussione. Ieri, in conferenza stampa, è tornato a insistere «sulla svolta epocale», nonostante restino «profonde differenze», e ha difeso le linee del protocollo, sostenendo che «se ne facessimo a meno andremo incontro a una fase piena di rischi». Pur riconoscendo le «legittime preoccupazioni» di Israele, il presidente americano ha sottolineato che l’alternativa all’accordo è la guerra: si tratta di una situazione, ha detto, che «o si risolve con i negoziati o con la forza, con la guerra, sono queste le due alternative». 
In un’intervista con Thomas Friedman del New York Times, Obama ha accostato l’intesa di Vienna a quelle degli anni Settanta e Ottanta con l’Unione Sovietica, ottenute dai repubblicani Richard Nixon, Henry Kissinger, Ronald Reagan. 
Ma in queste ore l’America appare più scettica che abbacinata dagli scenari storici evocati dal suo presidente. I dubbi di Coons sono condivisi da altri senatori democratici, come riconosce il loro leader, Dick Durbin. Nella lista dei titubanti figurano personalità normalmente più che allineate, come Chuck Schumer e Jon Tester. Segno che l’accordo è vissuto come uno strappo politico-diplomatico per due ragioni fondamentali e complementari. Primo: la reazione furibonda del governo israeliano ha scosso anche il partito democratico e messo in movimento la lobby filo-Tel Aviv, ben organizzata anche nel campo democratico. Secondo: permane una robusta diffidenza nei confronti degli ayatollah, considerati i veri padroni dell’Iran, che potrebbero usare le ricchezze oggi «congelate» dall’Occidente per finanziare il terrorismo o la guerra in Siria e nello Yemen. 
Nello stesso tempo Obama e i democratici devono reggere l’urto degli avversari repubblicani, ricompattati nel «no» alla distensione con Teheran. Donald Trump, candidato dalla multiforme invettiva, ha preso possesso anche di questo tema, affiancando l’Iran «filo terrorista» al Messico «degli immigrati criminali». Trump è in testa alla classifica del gradimento tra i repubblicani (al 17%), spiazzando Jeb Bush (14%). 
Il Congresso ha 60 giorni per esaminare il testo, compresa la pausa programmata ad agosto. Il momento decisivo, quindi, arriverà agli inizi di settembre. Biden, però, sta già facendo i calcoli, soprattutto per il Senato. La maggioranza repubblicana può raccogliere più di 60 voti su 100 a sostegno di una mozione che bocci l’intesa e mantenga in vigore le sanzioni economiche contro Teheran. Obama, a quel punto, come ha già annunciato, metterà il veto. Serviranno 34 sì, pari a un terzo più uno dei senatori. I democratici sono 46, gli «scettici» più o meno 12. Il presidente dovrebbe farcela, ma i margini sono veramente stretti.