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 2015  luglio 15 Mercoledì calendario

Nell’accordo sulla Grecia appena approvato non si parla solo di finanza, ma anche del codice di procedura civile, della modernizzazione della Pubblica amministrazione, della indipendenza dell’istituto ellenico di statistica. Insomma, quell’accordo penetra nel cuore dello Stato, non riguarda solo il debito e le condizioni finanziarie. Ma se l’Unione Europea è una associazione a mani congiunte, può dettare regole di comportamento per tutti i suoi membri, e richiedere di rispettarle. Per cui è sbagliato parlare di sovranità ferita e di democrazia umiliata, lamentare che l’accordo non è tra eguali, evocare i protettorati, sollecitare l’orgoglio nazionale

Due frasi sono rivelatrici del «dramma greco». Quella del ministro tedesco dell’Economia («il governo greco ha fatto di tutto per perdere la nostra fiducia») e quella ripetuta due volte nelle prime dieci righe del comunicato dell’Eurosummit del 12 luglio scorso («il bisogno di ricostruire la fiducia con le autorità greche»). Dunque, un governo non deve avere solo la fiducia del suo popolo, ma anche quella degli altri governi europei. Il rapporto di legittimazione e di accountability che lega governanti a governati si estende anche, orizzontalmente, ai membri di quel grande condominio che è l’Unione Europea.
Questa non è la fiducia che un debitore deve dare al suo creditore. Non conta solo l’economia. Nella proposta greca, finalmente approvata a Bruxelles il 12 luglio, non si parla solo di finanza, ma anche del codice di procedura civile (da approvare entro il 22 luglio), della modernizzazione della Pubblica amministrazione, della sua depoliticizzazione, della indipendenza dell’istituto ellenico di statistica. Insomma, quell’accordo penetra nel cuore dello Stato, non riguarda solo il debito e le condizioni finanziarie. Lo stesso testo greco di accordo, quello del 9 luglio, proponeva un nuovo Stato, si estendeva alla giustizia, agli strumenti anticorruzione, ai contratti pubblici, al mercato del lavoro, alla disciplina delle professioni.
La trama istituzionale di questa matassa imbrogliata (due salvataggi, un terzo ora iniziato; una elezione greca con nuovo governo e diverso mandato; una richiesta europea, bocciata in apparenza dal referendum greco, seguito a ruota da una nuova proposta greca non meno pesante della richiesta di accordo appena bocciata) ha visto intrecciarsi rapporti «verticali» (popolo ellenico-governo) e rapporti «orizzontali» (governo greco-insieme dei governi europei). Essa ha messo in luce un dato istituzionale di base: i governi nazionali non sono più responsabili solo nei confronti dei loro popoli, ma anche nei confronti dei governi (e, indirettamente, dei popoli) degli altri Stati europei. Se l’Unione è una associazione a mani congiunte, può dettare regole di comportamento per tutti i suoi membri, e richiedere di rispettarle. Per cui è sbagliato parlare di sovranità ferita e di democrazia umiliata, lamentare che l’accordo non è tra eguali, evocare i protettorati, sollecitare l’orgoglio nazionale.
Al fondo, era proprio questa duplice responsabilità che volevano i padri fondatori dell’Europa: ritenevano che la legittimazione popolare non bastasse, che la democrazia andasse arricchita, come accade quando si entra in associazione con altri e si assumono regole comuni che tutti debbono rispettare.
Che tutto questo accada attraverso una crisi non deve stupire: l’Unione è passata sempre attraverso crisi (ricordo quella della Comunità europea di difesa, degli Anni 50, quella della «sedia vuota», degli Anni 60 e quella successiva al trattato di Maastricht, degli Anni 90) e se ne è valsa per fare passi avanti. Altre crisi sono alle porte, perché l’Unione è un gigante regolatorio (detta standard per l’agricoltura, l’ambiente, le banche, l’energia, le comunicazioni, i servizi), ma è un nano fiscale (ha un bilancio di dimensioni modeste); si è sviluppata sul lato della disciplina della finanza, non su quello delle politiche economiche.
Che questo accada nel momento in cui il «vincolo esterno» caro a De Gasperi e a Carli pesa maggiormente su un Paese membro e l’Unione è come non mai al centro dell’opinione pubblica, è un secondo paradosso del presente passaggio.
Che, infine, questo accada attraverso un così forte protagonismo del concerto dei governi, invece che attraverso la Commissione europea, come lamentano i federalisti, neppure deve stupire. L’Unione ha 28 Stati e 500 milioni di abitanti. Gli Stati Uniti d’America, che i federalisti prendono ad esempio, avevano in origine 13 Stati e 4 milioni di abitanti (Washington fu eletto con 40 mila voti popolari) e passarono attraverso una guerra civile, dopo quasi un secolo dall’unificazione. Come ha osservato Guido Calabresi, gli Stati Uniti sono ancora oggi molto più divisi, in termini di valori, dell’Europa. E forse proprio per questo l’Unione Europea può sopravvivere senza un forte governo centrale. Sono ingenui coloro che ritengono che nell’area dove nacquero, molti secoli fa, gli Stati, questi ultimi possano essere messi a tacere e che la costituzione di organismi sopra-statali implichi una riduzione del loro ruolo.
Concludo: la staffetta popolo greco-governo greco-governi europei non è una ferita, ma un arricchimento per la democrazia. Consente a una comunità politica più vasta di far sentire la propria voce in ciascuna delle collettività che ne fanno parte, di stabilire criteri e regole condivisi, di conferire e limitare il potere, che è il fine ultimo di quella che continuiamo a chiamare democrazia.