Corriere della Sera, 14 luglio 2015
Ritratto di Ivan Basso, il ciclista che visse due volte. Le imprese, il doping, il pentimento, il ritorno e le vittorie. Fino all’ultima caduta – che poi è stata una fortuna – quella che al Tour gli fa scoprire di avere un tumore al testicolo. Ora torna a casa
Una caduta. Una salita controvento da prendere di petto. In fondo cosa c’è davvero di nuovo, Ivan? L’uomo che visse due volte, ieri ha imboccato un altro tornante, a pochi chilometri dal Tourmalet, dove nel 2004 ha sconfitto Armstrong. Proprio in quei giorni Basso chiede l’aiuto del texano per la malattia della mamma Nives: i migliori specialisti americani però non bastano. Ivan riparte, a testa bassa, indossa la maglia rosa pochi mesi dopo quel dolore tremendo, al Giro 2005. Sta male, la perde. Arriva secondo dietro a Lance al Tour, l’ultimo del cowboy, che sul podio di Parigi dice: «Lascio il futuro a Ivan e a Jan (Ullrich)».
Basso sale in orbita: domina il Giro 2006, umiliando gli avversari. Ma la caduta è dietro l’angolo. Il bambino che a 9 anni scalava lo Stelvio e a 12 si cappottava sulle pendenze del Mortirolo, stavolta fatica a rialzarsi: a Strasburgo, vigilia della partenza del Tour dove è il favorito, fugge dal retro dell’Holiday Inn perché è nella lista dei clienti del dottor Fuentes. Sono i giorni della cavalcata dell’Italia di Lippi al Mondiale tedesco, Basso si rifugia in casa, mentre qualche cicloamatore urla «drogato!» al di là della siepe.
Ci vuole un anno di bugie e di imbarazzi, di testa bassa questa volta per la vergogna: ci vuole la figlia Domitilla che lo guarda negli occhi attraverso lo specchietto dell’auto e dice «adesso basta». Arriva così la confessione alla Procura del Coni, che bene o male resta l’unica ammissione di un ciclista di alto livello. Il figlio del macellaio di Cassano Magnago sembra uno dei tanti: se tornerà in sella non andrà mai più come prima. Ma è in quei mesi senza squadra che Basso si libera dai sensi di colpa e rende unica la sua storia di campione e di uomo. Si confida col professor Umberto Veronesi, interessato alla sua vicenda. Viaggia in India, tra scuole e orfanotrofi per l’associazione Intervita. Si allena in modo massacrante, diventando una sorta di asceta della bicicletta.
La collaborazione con il professor Aldo Sassi e il suo ingaggio con la Liquigas lo riportano nel ciclismo. A testa alta. Ma per chiudere il cerchio serve una nuova impresa: conquistando in rimonta il Giro del 2010 Basso diventa il primo corridore reduce da una squalifica di due anni a (ri)vincere una grande corsa a tappe. L’arrivo solitario sullo Zoncolan, la salita più dura di tutte, tra il rumore assordante del popolo che lo acclama di nuovo, è il momento più alto della sua carriera, assieme al trionfo finale nell’Arena di Verona, come il suo idolo Francesco Moser: «Fino a quel momento ero una persona felice ma un ciclista triste: a quattro chilometri dal traguardo di quella cronometro ho recuperato tutto e mi sono completato».
La morte di Sassi, questa maledetta malattia che ritorna nella vita di Ivan come in quella di tante altre persone, sembra porre termine agli anni migliori sulla bicicletta: ormai sono più i figli che le vittorie, perché dopo Domitilla è arrivato un terzetto di maschi – Santiago, Levante, Tai – che promette scintille. Basso rinuncia al Giro 2013 all’ultimo minuto per un ascesso rettale, ma continua a non mollare un centimetro. Quando la strada sale però non è più quello di prima. E il Tour, l’ultimo, sembra quasi un omaggio del capitano Contador. Una caduta è la fortuna di Basso, perché gli fa scoprire il tumore. Rialzarsi, adesso, ancora, non è nemmeno in discussione.