la Repubblica, 14 luglio 2015
La famiglia di Lady Jihad dal carcere: «Credere in Allah non è terrorismo». Da due settimane i familiari di Maria Giulia Sergio, ovvero Fatima, sono a San Vittore. Non possono incontrarsi fra loro. La sorella indossa il velo e legge il Corano. La madre è la più provata. Il padre insiste: «Siamo persone normali»
La sorella Marianna indossa il hijab e si lamenta. «Vorrei un velo più adeguato, l’ho chiesto ma non posso averlo». Un velo più coprente di questo che le lascia il volto a vista. Mamma Assunta no, è vestita all’occidentale, molto provata. «Difficile stare qui, isolati da tutto da un momento all’altro». Valle a dire che la figlia in nero, cella al primo piano e Corano sempre aperto, desidererebbe tanto «farle gli auguri ora che sta finendo il Ramadan». Basterebbe questa frase per capire le sfumature. Poi c’è Papà Sergio. Ha accorciato la barba, di pochissimo. Dice: «Prego Allah perché questa storia finisca. Il digiuno? Purtroppo non posso: devo prendere delle medicine». Carcere di San Vittore. Quaranta e passa per cento di detenuti musulmani: il resto, direbbe Maria Giulia Sergio, la Fatima che col lavaggio del cervello jihadista ha fatto finire dietro le sbarre padre, madre e sorella, sono “miscredenti”. Eccoli i Sergio di Inzago. Dall’hinterland milanese all’Is (quasi): e poi in carcere. Dentro da 13 giorni. Isolati. Non possono comunicare né tra loro né con altri detenuti. Ricapitoliamo: i poliziotti della Sezione Antiterrorismo della Digos di Milano li arrestano nella villetta color ocra alle porte di Milano dopo avere ascoltato per mesi le conversazioni ad alto tasso terroristico con Maria Giulia, la 28 enne arruolata nelle file dell’Is assieme al marito albanese Aldo “Said” Kobuzi. Lei in Siria a decantare via Skype lo «Stato perfetto» fondato sulle «decapitazioni in nome di Allah» e via delirando; loro nella casetta di periferia ormai pronti a lasciarsi alle spalle l’Italia miscredente e a imbarcarsi su un volo per la Siria, «con una sola valigia», come li aveva istruiti Fatima. La famiglia jihad adesso parla. L’occasione è la visita nel carcere di San Vittore – ieri – di Khalid Chaouki, parlamentare marocchino del Pd. «Volevo capire, guardare negli occhi questa drammatica e pericolosa realtá». Lo chiamano il jihadismo della porta accanto. La porta della cella di Assunta – riferisce a “Repubblica” Chaouki – ha griglie che sembrano enormi rispetto alla presa delle mani sottili di questa donna che pare portare con fatica i suoi 60 anni. Li incontra tutti e tre i Sergio, Chaouki. I colloqui avvengono in cella. Reparto “protetti” (transessuali, pedofili, collaboratori di giustizia, ex appartenenti alle forze dell’ordine). La moglie Assunta occupa una cella dell’infermeria, secondo piano della sezione femminile. La figlia Marianna è un piano sotto, anche lei cella singola. Trent’anni, la sorella maggiore di “Fatima” era ed è la più convinta. Quella che per prima ha “trapassato”, quella che forse, chissà, se non l’avessero arrestata avrebbe gia imparato a usare il kalashnikov per eliminare i «non convertiti». «Non esco durante l’ora d’aria, mia madre sì. Sono molto preoccupata per lei e non capisco che senso ha averci messo in prigione. Soprattutto i miei genitori che sono anziani», si sfoga. Maria Giulia ha usato parole più nette per definire gli arresti del suo doppio nucleo familiare (italo-albanese): «Un buco nell’acqua». Ai parenti più stretti della jihadista al servizio del califfo Al Bagdadi è stato contestato l’articolo 270 quater del codice penale che punisce chi organizza la partenza di combattenti con finalità terroristiche. Marianna ha altri pensieri. «Questo velo non va bene, non copre...», riferisce al suo interlocutore. Ha appena infilato un segnalibro nel Corano, dice che non può parlare con le altre donne del reparto e che prega sempre, e lo stesso fa papà Sergio. Annuisce, Marianna, quando Chaouki le spiega: «La giustizia a volte è lenta ma giusta». I tempi lei li affida a Allah. «Prego perché ci faccia uscire da questa storia». Ci sono intercettazioni che di Marianna raccontano un grado di coinvolgimento nel progetto del jihad molto meno passivo rispetto a quello dei genitori. Del padre Sergio costretto da Fatima a prendere i 25mila euro della liquidazione e a unirsi all’Is. Della madre Assunta circuita con pressioni psicologiche di ogni tipo. L’ex operaio sessantunenne con la barba da imam rompe per qualche minuto il silenzio nel quale si è rifugiato dentro il reparto dei detenuti sgraditi al resto della popolazione carceraria. «Non siamo terroristi, siamo persone normali. Non abbiamo fatto niente di male. Sono ancora molto scosso e devo prendere dei farmaci perché non sto bene». Niente ora d’aria nemmeno per Sergio: sua scelta. Stando alle frequenze di radio carcere, che non hanno nulla di probatorio ma a volte rendono il clima, il padre di Maria Giulia sarebbe sì molto scosso, ma tutto fuorché pentito della sua conversione. «La più provata dei tre è certamente la madre», sintetizza Chouaki. Le parole di Assunta: «Voglio ringraziare le guardie carcerarie e il personale dell’infermeria per come mi hanno trattato. È difficile stare qui, isolati da tutto da un momento all’altro. Sono in pena per mio marito, per le mie figlie. Non so cosa succederà adesso...». Il velo, se c’è, è in cella, o è rimasto a casa. Non lo indossa. «Quando verrai qui ti compro tutto», era stata la promessa da lucignolo di Maria Giulia ormai Fatima. La figlia aveva rassicurato la madre per sfaldarne le resistenze. «Il Califfato non ti farà mancare niente... nemmeno la lavatrice». Era tutto pronto per la hijra (la migrazione) nello stato islamico. Anche gli elettrodomestici. Ma la polizia è arrivata prima.