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 2015  luglio 13 Lunedì calendario

Lo Stadio dove il Cile ha conquistato la sua prima Coppa America è lo stesso dove gli uomini di Pinochet hanno sequestrato e ucciso migliaia di persone. E dopo i festeggiamenti, tornano le malinconie di un passato fatto di torture e fucilazioni

Michelle Bachelet non ha perso una partita del suo Cile in trionfo. Si sbracciava dalla tribuna d’onore, lampi di felicità allontanavano le malinconie di un passato che le ha cambiato la vita. Padre che non ce l’ha fatta sotto tortura. E per lei botte, insulti e lame sottili frugavano la pelle: “Non ne voglio parlare… Era lo stadio di Pinochet”. Nelle sale sotto la tribuna della felicità (Cile campione per la prima volta nel continente dei campioni) per una notte il ricordo svanisce nel tempo: quei 40 mila prigionieri del settembre 1973. Non si sa quanti corpi dispersi in mare o nascosti nelle miniere di sale abbandonate nel deserto. Michelle aveva 24 anni e nei mesi dopo il golpe inseguiva le speranze di “prima”. “Eravamo giovani e inquiete. Capelli sciolti, collane di legni colorati. Che emozione quando cantavano i Beattle”. Si immalinconiva per il padre prigioniero, generale fedele ad Allende ma nel paese dove l’onore delle forze armate è sacro, Michelle e la madre si preoccupavano senza drammi aspettando il giusto processo che non si farà. Le polizie non le davano tregua. Irruzioni improvvise, cassetti rivoltati. Si vedeva con un tipo socialista e se il telefono faceva rumori strani, criptava la risposta “sono stata invitata a prendere un tè” per dire “pericolo, stai alla larga”. Chi la sorvegliava aveva fiutato l’imbroglio e un giorno l’hanno portata via. Con le tribune dello stadio ormai vuote è finita a villa Grimaldi, clinica delle torture.

Ammassati i dissidenti
Lo stadio-campo di concentramento aveva funzionato fino a novembre ’73. Sotto le gradinate c’erano gli spogliatoi dove si ammassavano i dissidenti “pericolosi”: né acqua, né luce. Appena catturati vagavano nelle tribune. Poi gli interrogatori, poi le notti nei cameroni dove era impossibile stendersi. Lottavano per l’angolo dei gabinetti, almeno seduti a riposare la schiena. Ogni mattino il colonnello Espinoza radunava i prescelti attorno a un disco nero piantato al centro del campo. In fila partivano verso il velodromo a due passi dallo stadio. E cominciavano i tormenti. “Mi hanno torturato con scosse elettriche”, ricorda Eduardo Canfield, vecchio cronista del Clarin, giornale amico di Allende inventato da Victor Pey, ingegnere di Barcellona che aveva combattuto contro i fascisti azzurri di Franco. Poi l’esilio in Cile, l’incontro con Neruda: stampa il quotidiano che accompagnerà il piccolo presidente fino all’ultimo giorno.
Ma trasformare lo stadio nel pronto soccorso della repressione richiede un’esperienza impossibile da improvvisare. E dalle ombre dei profughi di Hitler spunta Walter Rauff nascosto attorno a Santiago alla caduta del Reich. Genio del male, nessuno aveva mai immaginato una cosa così”. Racconto di una giornalista che negli anni di Pinochet sfidava le censure su un settimanale quasi clandestino. Ma la ricerca alla quale Patricia Verdugo dedicava la vita era frugare nei segreti del dittatore. Sono diventati libri tradotti e premiati. Rispondeva sottovoce: “È stato Rauff a organizzare lo stadio quando i generali preparavano la fine di Allende. Nessuno sa dove vive, ma un indirizzo l’ho trovato (quartiere Punta Arenas) fra le carte anni ’60 quando è finito in tribunale accusato di sterminio: aveva inventato le autolettighe della morte. Vapori avvelenati che hanno ucciso in Polonia 250 mila prigionieri nel viaggio tra le baracche e forni crematori”. Fine carriera a Milano; si imbarca a Genova per Santiago dove la legge non condanna i crimini di chi ha obbedito a ordini superiori. Rauff mi riceve nella villa blindata con la scioltezza dell’abitudine a visitatori italiani. Schermaglie sui ricordi milanesi ma appena voglio sapere come mai i golpisti gli hanno chiesto di organizzare lo stadio-prigione, alza il dito verso la porta: “Fuori” e si aggrappa al telefono. Qualche minuto dopo la polizia ferma il taxi. Ore di interrogatorio in un commissariato. Diffida di scrivere una sola riga su Rauff e lo stadio: dicembre 1973.
Nei cento giorni del dopo golpe Roberto Toscano, giovane segretario dell’ambasciata italiana, riesce a strappare al campolager il fotografo Mario Lizzul e Paolo Hutter, reduce dal ’68 e cronista volontario nel Cile di Allende. L’impegno politico lo accompagnerà nella vita. Toscano raccoglie decine di fuggitivi dietro le mura dell’ambasciata. Chi accompagnava le fughe era una suora italiana, Valeria Valentin. “Qualche volta”, (racconta Toscano che ha chiuso la carriera ambasciatore in India) “faceva la scaletta per aiutarli a scavalcare il muro”.
Le fucilazioni ufficiali
Nei cento giorni che seguono il golpe vengono “ufficialmente” fucilate 823 persone. Fra loro due ragazzi californiani, Charles Horman e Frank Teruggi giornalisti free lance arruolati nelle rivolte universitarie contro la guerra in Vietnam. Scendono in Cile per capire le novità di Allende. Il giorno del golpe Horman è in vacanza con la moglie a Valparaiso. Autostop per Santiago che brucia e sparisce. Quando la moglie torna a casa la trova sconvolta da mani curiose. Una vicina ha visto Charles in manette fra i poliziotti che lo portavano via. Denuncia la scomparsa all’ambasciata. Edmund Horman, padre di Charles arriva in Cile con la raccomandazione di un senatore. Un alto funzionario lo accompagna con le premure dovute a un ospite di riguardo, nei comandi militari cileni. Gli è concesso di entrare nello stadio; passa in rassegna mille facce. Disperato implora dall’altoparlante: “Charles Horman sono tuo padre, dove sei?”. Silenzio. Se ne va piangendo. Lo trova qualche giorno dopo fra i corpi ammucchiati “come legna” nel sotterranei dello stadio: soffiata di un consigliere della fondazione Ford. Fa sapere che il funzionario dell’ambasciata Usa aveva l’ordine di depistare la ricerca. Morto anche Teruggi. La bara di Horman torna a casa sette mesi dopo accompagnato dal telegramma di Henry Kissinger promosso segretario di stato dopo la rimozione di Allende e alla vigilia del Nobel della Pace per la fine della guerra in Vietnam. Conclude le condoglianze con una postilla: l’ambasciata di Santiago chiede il pagamento di 900 dollari per il trasporto della salma a New York. Il regista Costa Gavras lo racconta in Missing, Jack Lemon recita il padre.
Anni dopo, settembre 2000, incontro a Santiago la vedova di Charles. Nella conferenza stampa annuncia di aver scoperto “documenti terribili che rendono più drammatica la fine del marito”. Scriverà un libro, chissà se lo ha finito.