la Repubblica, 13 luglio 2015
Nel consolato del Cairo distrutto dalla bomba: «L’obiettivo era l’Italia, ecco le prove». Nel video della sicurezza si vede l’attentatore parcheggiare proprio davanti all’edificio. E la Tunisia costruisce una barriera lunga 220 km al confine libico, contro l’infiltrazione di terroristi
Hanno nascosto le ferite del consolato d’Italia sotto un lungo velo verde. Un telone di decine di metri come quelli che si adoperano nei cantieri edili per proteggere da calcinacci e polvere. Qui serve a nascondere uno squarcio immenso, aperto in questo poderoso quadrilatero italiano affogato in quella che oramai è una delle zone più caotiche e indifendibili del Cairo. Ci siamo entrati ieri pomeriggio, con l’ambasciatore, l’addetto militare e i diplomatici italiani ancora attoniti, che preparano la visita del ministro Gentiloni, questa mattina.
La sede del consolato è in uno spicchio di un grande palazzone, un quadrilatero di 300 metri per 300, costruito all’inizio del Novecento. Dentro ci sono molti pezzi d’Italia in Egitto: oltre al consolato, il Liceo italiano, la scuola Leonardo Da Vinci, la Dante Alighieri, l’ufficio dell’addetto militare, il “CRI”, il centro ricreativo italiano con pizzeria e tavoli al chiuso e all’aperto. Il tutto, già da molto prima dell’attentato di sabato, è in uno stato di degrado perfettamente in sintonia col contesto cairota. Ma fino a prima della bomba era un degrado confortevole, protetto, isolato. Adesso la parte posteriore, che però era proprio quella destinata agli uffici del consolato perfettamente rinnovati, è sventrata: una parte del primo piano è crollata in corrispondenza dell’autobomba. Tutto il resto – porte, finestre, infissi – è saltato.
L’attentatore. È arrivato alle 6,20 del mattino, lo testimoniano le immagini con gli orari dei video del sistema di sorveglianza. Ha parcheggiato con calma la sua “Speranza”, una vettura cinese in vendita in Egitto, ha gironzolato all’esterno, è tornato indietro, ha chiuso a chiave e si è allontanato. Vista adesso dai carabinieri italiani, l’auto dimostra di essere carica proprio come un’autobomba, ribassata per i 250 chili (qualcuno dice 400) di tritolo infilati nel portabagagli. Alle 6,26 il terrorista gira l’angolo del consolato che lo riporta su via 26 Luglio – lo riprendono altre telecamere – si avvicina a un furgone che probabilmente è dei complici, e pochi secondi più tardi preme il tasto del telecomando. I video si interrompono. «Le immagini sono abbastanza chiare, l’uomo ha un cappello in testa, non sappiamo se sarà facile identificarlo, ma tanto qui i terroristi ormai si moltiplicano a decine, centinaia al giorno», dice uno degli addetti.
Il console Luca Fava ha avuto l’ufficio devastato, il corridoio che porta alla sua porta è crollato, in ufficio si entra scalando le finestre sulla strada. «Abbiamo portato via gli sticker per i visti, i timbri, il materiale sensibile, la dotazione finanziaria, ma è impossibile riprendere a lavorare». Una passeggiata intorno al consolato permette di capire quello che però è chiaro già dal video: l’Italia era l’obiettivo. La Corte Suprema è a 400 metri di distanza, ma oltre un cavalcavia, dopo un incrocio affollato e intricato. Come un altro quartiere. Ma perché l’Italia? E poi chi è stato? L’Italia è un paese occidentale, che sostiene, anche se con qualche disincanto, il regime di Al Sisi.
Tutta l’area è in fiamme. La Tunisia ha annunciato che costruirà una barriera di protezione lungo il confine con la Libia lunga 220 chilometri, 40 in più rispetto a quelli già annunciati: il “muro” sarà composto da un’insieme di ostacoli, fossati e trincee per proteggere la frontiera dal contrabbando, ma soprattutto dall’infiltrazione di terroristi.
È un’instabilità di un’intera area geografica cui si deve fare i conti: l’ambasciata americana, quella britannica, gli altri uffici occidentali sono superblindati. I palazzi italiani, la loro struttura sono invece ancora il simbolo di una presenza europea in Egitto leggera, da belle époque. Per nulla “blindata”. L’ambasciata sul Lungonilo è indifendibile per esempio da attacchi pesanti, magari con camion bomba come a Nassirja, perché è sulla strada, lungo un’arteria che ragionevolmente non può essere chiusa. Verranno piazzati nuovi blocchi di cemento, nuovi dissuasori forniti e pagati dall’esercito egiziano, ma la sensazione è che il palazzo sia fragile. Sulla mini-rivendicazione a nome Stato Islamico (su Twitter) per ora si possono fare solo ipotesi. Prematuro sostenere che «sono stati al 99% gruppi dei Fratelli musulmani», ma è un fatto che anche dopo l’autobomba al procuratore generale Hisham Barkat i jihadisti del Sinai hanno iniziato ad infiltrarsi al Cairo, dove trovano giovani Fratelli musulmani pronti a collaborare.
«Il problema è che il trend sembra essere in peggioramento», dice un diplomatico occidentale. «Sisi era salito al potere promettendo sicurezza e miglioramento dell’economia, non ci sono né l’uno né l’altra e soprattutto la repressione politica sta colpendo indiscriminatamente tutti. I terroristi cresceranno». Riuscirà Sisi a schiacciare con la forza i jihadisti, sradicando anche i Fratelli musulmani? Per ora l’Italia appoggia il generale-presidente, oggi Gentiloni incontra anche lui. Forse non ci sono alternative, ma anche per questo il glorioso consolato d’Italia è saltato per aria.