Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  luglio 10 Venerdì calendario

Un vento bipartisan riformatore soffia sulla corsa alla Casa Bianca. Da Jeb Bush a Marco Rubio, da Rand Paul a Ted Cruz, da Bernie Sanders a Martin O’Malley, la necessità di una ripresa più equa influenza i candidati, repubblicani compresi

Spuntano, tra gli aspiranti democratici alla Casa Bianca, un improbabile socialista dichiarato e un ex governatore che vanta d’esser stato il più progressista di sempre. Mentre nel più folto gruppo degli almeno 14 candidati repubblicani, i più accreditati sono usciti allo scoperto violando veri e propri tabù, l’ortodossia economica del taglio onnipotente delle tasse. E offrendo invece udienza a dottrine “soft”, che alle spade ideologiche dei Neocon sostituiscono i pragmatici aratri dei Reformicon.
Il vecchio adagio «It’s the economy, stupid» – nelle urne decide l’economia – oggi viene rivisitato e aggiornato, non di poco. Una nuova stagione della politica statunitense, in vista delle elezioni presidenziali del 2016, filtra nei primi programmi dei candidati. Che, passate le paure di recessione, rivelano ed esprimono le frustrazioni per una ripresa da correggere, inadeguata a rilanciare davvero, per troppi, il sogno americano. Che confrontano le storiche speranze del “Yes we can” di Barack Obama con i suoi modesti risultati, una riforma sanitaria zoppicante e, soprattutto, la stagnazione nei redditi dei ceti medi e la sperequazione sociale rampante.
I fermenti più sorprendenti scuotono i repubblicani. Jeb Bush, al momento favorito ufficiale alla nomination, rivendica un passato di “tagliatore di imposte” ma anche di fautore di efficace spesa pubblica, che da governatore della Florida aumentò del 45%. Oggi non nasconde di favorire investimenti infrastrutturali come riforme che legalizzino gli immigrati. La sua nemesi, l’ex protetto Marco Rubio, si spinge oltre: ha pubblicato in primavera una strategia che, se azzera tasse su dividendi e capital gains, mantiene un’aliquota massima del 35% sui redditi oltre i 75mila dollari accanto a una minima del 15%. Non solo: è favorevole a riforme sanitarie che aiutino i meno abbienti e a generosi crediti per famiglie con figli, a investimenti pubblici e aperture sull’immigrazione. Ignora, invece, il tradizionale spauracchio dei deficit di bilancio. L’ultimo arrivato, il governatore del New Jersey Chris Christie, conta sulla fama di centrista e pragmatico, conquistata abbracciando Barack Obama durante la ricostruzione dopo l’uragano Sandy, per far dimenticare anche scandali etici.
Tra i conservatori, certo, si contano tuttora ortodossi e ortodossie: il governatore della Louisiana Bobby Jindal, forse per distinguersi, è sceso in campo dimenticando piani economici e dichiarando che la Corte Suprema andrebbe abolita dopo la sentenza a favore del matrimonio gay. Scott Walker, governatore del Wisconsin e bestia nera del sindacato, è paladino di sforbiciate a tasse e spese. Il libertario Rand Paul vuole una flat tax al 14,5%. E il texano Ted Cruz e il commentatore Mike Huckabee eliminerebbero l’agenzia delle entrate. Tutti, inoltre, ridimensionerebbero le regole su Wall Street.
Ma l’ondata riformatrice potrebbe continuare a lambire il partito, se la scelta di consiglieri economici da parte dei candidati serve da esempio. A Paul che ha assunto il gestore di hedge Mark Spitznagel, Bush ha risposto sedendosi al tavolo con i Reformicon. Rubio, accanto al finanziere Wayne Berman del Blackstone Group, ha dalla sua le simpatie di voci influenti del nuovo movimento. «Servono molte iniziative per rilanciare l’economia», spiega riassumendo il pensiero più aperto.
Se tra i repubblicani la nuova fase ha smussato le certezze conservatrici, nei ranghi democratici ha piuttosto messo in imbarazzo e spinto a sinistra la favorita alla nomination. Hillary Clinton, ancora senza un piano articolato, sta cercando di fare notizia con proposte concrete, quali crediti alle aziende per assunzioni e qualificazione del personale e accesso universale agli asili. Ma ha anche dato spazio a più altisonanti prese di posizione: ha criticato l’accordo di free trade con i Paesi del Pacifico, condannato come anti-lavoratori sia dal “socialista” Bernie Sanders che dall’ex governatore del Maryland Martin O’Malley. E speso parole dure contro la diseguaglianza e Wall Street, facendo eco al populismo della non-candidata ma vera madrina liberal del partito, la senatrice Elizabeth Warren. Sanders, però, incalza: invoca mille miliardi di investimenti infrastrutturali e college pubblico gratuito da finanziare con una Robin Hood Tax sul trading. E sia lui che O’Malley vogliono seri aumenti del salario minimo.
Le radici del nuovo sisma politico, tuttora in fase di assestamento, sono profonde. Se le statistiche economiche più citate mostrano ottimismo, con una disoccupazione scesa al 5,5%, non cancellano realtà meno rosee. Il Pew Center calcola che il 20% più abbiente abbia oggi il maggior distacco dal restante 80% in oltre trent’anni. Il National Bureau of Economic Research calcola che lo 0,1% controlli il 22% della ricchezza nazionale dal 7% nel 1979, mentre la quota del 90% si contrae dagli anni Ottanta. Ancora: il non-partitico Congressional Budget Office stima che in 35 anni il reddito reale dell’1% più ricco sia aumentato cinque volte più velocemente di quello di ceti medi e medio bassi. Ricchezza e risparmio, denuncia il Nobel liberal Joseph Stiglitz, sono ora generati da corse degli asset in gran parte in mano ai più facoltosi, quali le azioni salite del 200% dal 2009. Risultato: gli Stati Uniti sono in vetta alle classifiche della disparità nei Paesi sviluppati. Tanto che il presidente della Fed, Janet Yellen, ha liquidato chi si compiace della ripresa con una domanda: «Dimensioni e crescita della diseguaglianza mi preoccupano enormemente. Sono compatibili con i nostri valori?». La risposta spetta ora ai candidati.