Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2015
La Cina e la bolla dei prestiti. Secondo la Bri, stanno subendo una crescita esponenziale, il loro livello è ormai superiore del 25% rispetto al trend storico: una forte accelerazione che lascia dubbi sulla possibilità che i debiti vengano onorati. Il pericolo è il crollo della fiducia
Dove finiscono gli squilibri cinesi? È la domanda più importante, oggi. La diagnosi più urgente, di fronte alle turbolenze finanziarie, riguarda infatti quanto possano trasferirsi all’economia reale: uno scenario che potrebbe essere evitato – come è accaduto anche altrove – ma che rappresenta comunque un importante fattore di rischio.
Anche in Cina, tutto comincia dagli immobili. Come negli Stati Uniti, in Spagna, in Irlanda. In un’economia impegnata in una difficilissima transizione- che prevede il rallentamento ordinato dell’attività e una maggior enfasi sulla domanda interna e sul welfare state rispetto alla domanda estera e agli investimenti – il settore delle case ha iniziato a calare: in un anno, in termini reali, il valore degli immobili residenziali è calato del 7%. La conseguenza è stata immediata: la crescita della domanda privata – ha spiegato il rapporto 2015 della Banca dei regolamenti internazionali di Basilea – ha frenato. Si sono anche ridotte le entrate fiscali: molti enti locali, oltretutto fortemente indebitati con il sistema bancario ombra, ricavano risorse dalla vendita di terreni pubblici e dalle imposte su attività direttamente o indirettamente legate agli immobili – e così l’attività economica.
Il rallentamento degli immobili, in realtà, è stata meno una causa, che un segnale: era probabilmente il sintomo di un ciclo finanziario che aveva raggiunto il suo picco e ora iniziava a puntare verso il basso. È, questo, uno scenario ben poco rassicurante. Perché dietro la “bolla” della Borsa ce n’è può essere un’altra, e riguarda il credito. La crescita dei prestiti è stata tale che, secondo la Bri, il suo livello è ormai superiore del 25% rispetto al trend storico: una forte accelerazione che lascia dubbi sulla possibilità che i debiti corrispondenti vengano tutti onorati. Secondo il rapporto 2014 del Fondo monetario internazionale, il complesso dei crediti – definiti “finanziamento sociale totale” – è passato dal 130% del pil del 2008 al 207% all’inizio dell’anno scorso, a costi in crescita. È aumentata anche l’esposizione verso l’estero: in due anni – spiega la Bri – il totale dei prestiti oltrefrontiera è salito da 500 a mille miliardi di yuan (non moltissimo, in realtà: 150 miliardi di euro, su un pil di 9.500 miliardi), mentre a fine marzo i finanziamenti assunti sui mercati esteri erano pari a 450 miliardi.
Sono cifre che segnalano un surriscaldamento. Nulla di tutto questo è però destinato a trasformarsi meccanicamente in una recessione. Anche di fronte a un grave episodio di turbolenza, o di crisi, finanziaria. Il Fondo monetario, per esempio è decisamente ottimista. Ieri non ha modificato le sue proiezioni sulla crescita del paese, ferme al 6.8% di quest’anno e al 6.3% del prossimo: le attuali turbolenze di mercato sono state semplicemente attribuite alle difficoltà della transizione verso il nuovo modello di crescita, che comunque costituiscono uno dei fattori di rischio alle previsioni.
L’Fmi non è però in grado di escludere un rischio di hard landing, di atterraggio duro dell’economia cinese. Il rapporto 2015 sulla Cina è in corso di pubblicazione, ma quello del 2014, pur attribuendo a questo scenario avverso un basso rischio di probabilità, suggeriva un po’ di cautela. Negli ultimi 50 anni, dall’esame di 43 paesi diversi, sono emersi quattro episodi di crescita del credito altrettanto rapida di quella cinese. Tutti e quattro i paesi hanno poi subìto, entro tre anni dalla fine del boom, una crisi bancaria. Secondo l’Fmi, in ogni caso, il governo cinese potrebbe ha tutti gli strumenti per evitare il peggio. «In Cina – spiegava il rapporto – il governo ha ancora la capacità di assorbire gli shocks e di prevenire quelle forme di perdita di fiducia o di improvviso “stop” dei mercati che hanno fatto scattare gravi problemi in altri paesi: come la corsa agli sportelli, il congelamento del mercato interbancario, il collasso del mercato immobiliare o una fuga di capitali».
La parola chiave è allora “fiducia”: è evidente che è questo che manca ai mercati finanziari in questa fase. Difficile stabilire però se sia il sintomo di un problema più diffuso, e che potrebbe emergere anche dal settore creditizio, o piuttosto di un episodio per ora contenuto con il “solo” rischio di un contagio.
Un effetto diretto non sembra probabile. Un’analisi di Barclays spiega che l’investimento azionario non è molto diffuso in Cina: posseggono azioni 37 milioni di famiglie, su un totale di 420 milioni, per 91 milioni di persone, il 6,6% della popolazione totale. L’effetto sui consumi di questi investitori dovrebbe restare limitato: innanzitutto le quotazioni sono tornate ai livelli di marzo, mentre l’alta quota di risparmi permette alle famiglie di assorbire eventuali riduzioni temporanee di reddito.
Anche le imprese fanno poco ricorso ai mercati, che coprono solo il 2.7% dei finanziamenti totali. E se il settore finanziario è diventato sempre più importante come generatore di valore aggiunto (e quindi di pil) un’eventuale perdita dell’indice Shanghai Composite del 10% a fine anno, comporterebbe un rallentamento della crescita dello 0,2%.