La Stampa, 10 luglio 2015
A proposito della condanna di Berlusconi per la compravendita di senatori, ricordiamo per bene come cadde quel governo Prodi. Fra arresti, trame e vocazione maggioritaria, sarebbe riduttivo dare la colpa solo al cambio di casacca di De Gregorio. Decisive le inchieste nell’Udeur e le ambizioni del Pd
Il supplizio del secondo governo di Romano Prodi durò un anno otto mesi e una settimana, dal 17 maggio del 2006 al 24 gennaio del 2008, quando cadde per sfiducia al Senato. Oggi, dopo la condanna a Silvio Berlusconi per il remunerato passaggio a destra del dipietrista Sergio De Gregorio, l’ex premier di centrosinistra dice ai giornali che, chissà, senza quell’ingaggio corruttivo il gabinetto sarebbe sopravvissuto. Fa bene a dirlo: è un gol nella porta vuota dell’arcinemico, e non si resiste a calciare. Ma la storia è troppo recente per essere dimenticata così a buon mercato, la maggioranza al Senato ottenuta per 24 mila suffragi, i dieci voti di scarto alla prima fiducia, e sette erano dei senatori a vita a cui Prodi si sarebbe appoggiato per disperati mesi, suscitando l’umorismo da addio al celibato del centrodestra che per mano di Francesco Storace regalò delle stampelle a Rita Levi Montalcini.
Noialtri cronisti facevamo ogni santo giorno il giro dei potenziali congiurati, dall’ormai mitologico Franco Turigliatto, transfuga di Rifondazione comunista, a quello del Partito dei comunisti italiani, Fernando Rossi, fino a un hollywoodiano senatore di Chicago, Renato Turano, che avevamo iscritto all’elenco degli attenzionati per la parlata da gangster. Certo, il passaggio a destra di De Gregorio contribuì all’instabilità del governo, e però l’origine dei guai era precedente, quando dentro all’Unione si era messo di tutto pur di levarsi di torno Berlusconi: i partiti alleati erano una dozzina, i Ds, la Margherita, l’Udeur di Clemente Mastella, l’Italia dei Valori, i radicali, tutta la sinistra estrema, fino a formazioni esotiche come Alleanza lombarda, premiata con un sottosegretario. Per tenere assieme l’esuberante truppa toccò di varare il più abbondante governo della storia dell’umanità, centotré graduati fra ministri, viceministri e sottosegretari, di modo che tutti fossero soddisfatti. Senza contare il non granitico appoggio esterno di Italia di mezzo, Consumatori uniti, Sinistra critica, un’infinita serie di gruppi monocellulari.
Nell’autunno del 2007 la malferma moltitudine prodiana incrociò il cammino del neonato Partito democratico, che a ottobre per mezzo di primarie aveva assegnato la leadership a Walter Veltroni. Il segretario annunciò subito la vocazione maggioritaria del Pd in contrasto all’andazzo dell’Unione: e che altro doveva fare davanti a quello spettacolo brancaleonesco se non dichiarare defunta la strategia dell’ammucchiata? Berlusconi salutò il delegittimato Prodi e si mise a trattare con Veltroni una legge elettorale che introducesse il bipartitismo. Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, il 4 dicembre concesse un colloquio a Massimo Giannini della Repubblica per sollecitare l’intera maggioranza a «prenderne atto: questo centrosinistra ha fallito. La grande ambizione con cui avevamo costruito l’Unione non si è realizzata»; spiegò l’evidenza, il ribaltamento delle prospettive imposto dalla fondazione del Pd, l’idea di una Cosa rossa alla sinistra del partitone, e fu feroce nel parlare del premier come Ennio Flaiano aveva parlato di Vincenzo Cardarelli, «il più grande poeta morente».
La botta conclusiva arrivò un mese dopo, il 16 gennaio del 2008. Quella mattina il guardasigilli Clemente Mastella stava andando alla Camera dei Deputati per fare il punto sulla riforma della Giustizia quando fu raggiunto dalla notizia dell’arresto della moglie, Sandra Lonardo, e di altri capoccia dell’Udeur. Mastella pronunciò un discorso sfrenato, fra il guerresco e il patetico, non valutò l’inchiesta estranea all’impegno per la riforma della magistratura, parlò di «caccia all’uomo», di «giudici politicizzati», ammise di avere paura, automaticamente sollevò le proteste del braccio politico delle procure: Antonio Di Pietro giudicò «eversivo» il discorso del collega di maggioranza, lo paragonò a quello di Bettino Craxi del 1992, chiamò «casta» i parlamentari che avevano applaudito. Mastella voleva la solidarietà di Palazzo Chigi, non la ebbe e si dimise. A Prodi non rimase che assistere al tracollo col poco che gli restava: la dignità.