la Repubblica, 9 luglio 2015
Un mondo di zombie. In un saggio la storia e il ruolo dei morti viventi nel nostro immaginario. Dall’Haiti ottocentesca all’incarnazione di nozioni marxiane
Qualche anno fa Arbasino toccò un punto sensibile del nostro immaginario collettivo, con un libro dal titolo “Paesaggio con Zombie”. In una prospettiva ben diversa, John Quiggin usò la stessa figura nel 2010 per parlare della crisi finanziaria in “Zombie Economics. How Dead Ideas Still Walk among Us” (“Economia zombie. Perché le idee morte camminano ancora fra noi”). Nel suo caso, la colorita metafora era applicata alle concezioni neoliberali, le quali, sebbene già “belle e sepolte” (oltre che inefficaci e pericolose), continuano a aggirarsi fra di noi come se niente fosse,
costituendo l’unico quadro teorico di politici e tecnici chiamati a salvarci dalla crisi. Questi, a ogni modo, sono solo due esempi fra i tanti che potrebbero confermare la singolare fortuna di questa parola nell’universo della comunicazione. Lo mostra adesso un eccellente saggio di Rocco Ronchi, Zombie Outbreak. La filosofia e i morti-viventi (Textus Edizioni, pagg. 95, euro 8,50).
Docente di filosofia teoretica all’Università dell’Aquila, l’autore inquadra il suo argomento ricordando come gli zombi (questa la grafia da lui scelta) provengono dalla misteriosa Haiti, la stessa che, in occasione della Rivoluzione francese, era stata teatro di uno straordinario esperimento politico: una democrazia instaurata grazie all’acume di un leggendario schiavo nero, Toussaint Louverture. La piccola isola caraibica, nota Ronchi, è stata la prima nazione nera della storia, la qual cosa, all’inizio dell’Ottocento, aveva disturbato l’establishment schiavistico degli Usa. Per ostacolarne l’indipendenza gli americani imposero un blocco navale, preoccupati che il contagio rivoluzionario, approdando alle loro coste, mettesse in questione il sistema di produzione schiavistico.
Ebbene, poco più di un secolo dopo, William Seabrook pubblicò a Londra The Magic Island, il reportage cui si deve l’introduzione degli zombi nella fantasia popolare occidentale. Appena tre anni dopo, nel 1932, gli spettri caraibici sbarcarono nel mondo dello spettacolo col film di Victor Halperin White Zombie, rivelando in tal modo quella specifica vocazione cinematografica attentamente indagata da Ronchi. Personaggio dalla fama sinistra, negli anni Venti Seabrook frequentò i circoli intellettuali parigini, avvicinandosi ai surrealisti e in particolare a Georges Bataille. Prima di lui, anche altri occidentali avevano ovviamente raccontato di Haiti. Nessuno, però, era mai riuscito a immergersi nella vita haitiana fino a farsi adottare da una maman strega. Giornalista, collezionista di maschere fetish, etnologo sui generis, accusato di ogni dissolutezza sessuale nonché di cannibalismo, Seabrook morì a New York nel 1945, suicidandosi con una overdose di droga.
Da questo spericolato etnologo, Ronchi trae una serie di illuminanti letture della società contemporanea.
A mo’ di segnalazione, vanno almeno citati i passi sulla differenza che intercorre tra la solitudine del vampiro, notturna e romantica, e la pluralità degli zombi, diurna e industriale. Non meno interessanti le analisi in chiave post-human, e soprattutto le congetture che (in un registro piuttosto socio-clinico) paragonano le “de-creature” di Haiti alla moltitudine esaminata da Platone sotto forma di onkos, ovvero cancro, massa tumorale. Resta comunque fondamentale la mossa di partenza. Infatti, come confessa un informatore haitiano allo stesso Seabrock, gli zombi esistono davvero. La loro patria è Hasco, sigla di un gigantesco impianto dove si produce rhum e si raffina zucchero. È appunto in questo immenso territorio, con i braccianti pagati una miseria, che nasce ufficialmente la leggenda.
L’incubatrice dei morti viventi, insomma, è rappresentata dalla fabbrica, dal lavoro salariato, dallo sfruttamento, dalla proletarizzazione dei contadini, dai problemi connessi allo sviluppo dell’economia capitalistica in un’isola caraibica. Commenta Ronchi: «In pochi casi, che io sappia, una tradizione folklorica è stata così indissolubilmente intrecciata alle trasformazioni indotte dalla modernità capitalistica e dall’imperialismo occidentale in un paese extraeuropeo. Gli zombi sono l’incarnazione della nozione marxiana di forza-lavoro. Ne sono l’incarnazione in senso letterale. Sono forza-lavoro allo stato puro Il loro orizzonte esclusivo è il lavoro. Sono macchine viventi, macchine che simulano la vita al fine di lavorare».
Se questa è la drammatica origine storica degli zombi, non bisogna però dimenticarne i tratti favolosi, in genere affidati (per la profonda affinità di cui si è detto) all’universo del cinema. Cadaveri, ossia resti, residui per antonomasia, questi esseri, a rigore, non sono nemmeno, in quanto, più che essere, brulicano, pullulano, proliferano, non finiscono mai. O meglio, non sono più. «Non esistono nel senso filosofico della parola esistere, non sono nel mondo, piuttosto avanzano dal mondo e avanzano nel mondo presi da moto perpetuo. Uno zombi, per quanto lento nei movimenti, non può mai smettere di muoversi. La loro mobilità incessante esprime il loro non poter stare, la loro atopia. Non abitano più il mondo, non hanno luogo».
Assai convincente in tal senso, oltre che il ricorso alla terminologia proposta da Heidegger, è l’uso di quella sviluppata da Emmanuel Levinas nei suoi primi testi, relativi alla sopravvivenza nel campo di concentramento, definito come un’autentica «esistenza senza esistenti». Ciò spiega infine il successo di un’immagine così vicina alle tragedie del nostro tempo, il mero “che c’è” di una vita talmente nuda da risultare già da sempre morta. Da tempo sapevamo che la metafora degli zombi, divulgata dai film di Romero, si prestasse a convincenti interpretazioni di taglio politico, quale «segno dell’alienazione ideologica che rende le masse passive e dominabili». Ciononostante, il testo di Ronchi ci offre un’illuminante, esauriente ricostruzione del fenomeno.