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 2015  luglio 09 Giovedì calendario

Alla scoperta di Vivian Maier, la tata-fotografa che nascondeva il mondo negli occhi. Da domani al Man di Nuoro una rassegna sulla grande artista americana che non sviluppò mai i suoi rullini

Prima di quatto o cinque anni fa nessuno conosceva il nome di Vivian Maier. E del resto perché si sarebbe dovuto? Per tutta la sua vita ha fatto la tata presso le case dei ricchi, in un quartiere di Chicago, poi è andata in pensione e si è spenta a ottantatré anni senza lasciare alcuna traccia dietro di sé. Se non fosse per dei rullini fotografici che stavano in un deposito dove Vivian aveva messo i suoi mobili prima di andare a vivere in un albergo, non la conosceremmo.
Quando ha smesso di pagare l’affitto per le sue cose stipate nel magazzino, sono andate all’incanto e un giovanotto di Chicago, John Maloof, ha comprato all’asta un bel pacco di rullini fotografici e filmini e se li è portati a casa. Preso dalla curiosità li ha aperti e stampati. Si è trovato davanti a un mistero: com’è possibile che questa sconosciuta signora avesse fotografato per tutta la sua vita e in modo così straordinario? Una volta Susan Sontag ha scritto che una fotografia meravigliosa la possono scattare tutti, perché la fotografia è l’arte più democratica che esista. Ma nel caso di Vivian Maier lo straordinario si ripete più e più volte, tanto che qualcuno ha cominciato a parlare di lei come di uno dei maggiori fotografi del Novecento.
Vivian ha fotografato ciò che vedeva. Meglio, ha fotografato il suo sguardo. Una delle sue immagini più ricorrenti sono autoscatti. Si pone davanti a uno specchio, più spesso la vetrina di un negozio che la riflette, e clic. Ha sempre in mano la sua macchina, una Rolleiflex 6x6; a volte è da sola, a volta con uno dei suoi bambini. C’è persino un’immagine, che apre il volume Vivian Maier. Street Photographer, in cui si pone davanti a uno specchio che riflette uno specchio, e via all’infinito: un’immagine dietro l’altra, la macchina sul cavalletto, lei con le mani appoggiate ai fianchi. Il suo sguardo è un misto di assenza e concentrazione, guarda in macchina, sempre di sghimbescio.
Fotografa non solo quello che vede, ma come lo vede. Ed è questo che fa grande un fotografo: fotografare il proprio sguardo, anche se poi l’oggetto è una donna con la veletta, un uomo che dorme sulla spiaggia, una serie di ombre sulla strada, gente comune sui marciapiedi, edifici delle città. Vivian coglie sempre dei particolari, dei dettagli (le gambe delle persone, un gesto, le teste viste da dietro), e trasforma la parte in un tutto.
Quale «tutto»? L’umanità delle persone, e persino quella dei luoghi. L’umanità non è una qualità che si fotografa facilmente, perché nonostante tutto si sottrae quasi sempre, e se appare, è artefatta, in posa, innaturale (e ci sono fotografi specializzati in questo, come Martin Parr). L’umanità di Vivian Maier le assomiglia, è in definitiva la sua umanità, qualcosa d’imprendibile e di labile a un tempo, per quanto non c’è nessuna delle foto che ha scattato che non contenga qualcosa di memorabile. Questo perché la tata di Chicago ha un innato senso della forma. Se si prova a tracciare con una matita il contorno delle persone che fotografa, individui o gruppi, si colgono bene le masse, gli ingombri dei corpi, la loro disposizione: sono tutti in equilibrio, un equilibrio instabile. Colti al volo, di passaggio, eppure fissati per sempre.
Dato che fotografava andando in giro con i suoi bambini, Vivian è diventata una «Street Photographer», genere in cui eccellono molti degli autori del Novecento da August Sander a Walker Evans; la differenza è che lei è una donna. E si vede.
Tuttavia non c’è nulla di compassionevole nei suoi scatti. Sono secchi, austeri, come gli abiti che indossa, e con cui ama ritrarsi. I suoi lineamenti sono mascolini, eppure il centro del suo sguardo è femminile: coglie il laterale, il marginale, il provvisorio. Sa afferrare il momento magico che trapela da un gesto, da un impercettibile movimento. Lo fissa dentro il suo sguardo e scatta. Il vero mistero non è perché non è diventata famosa e ha dovuto attendere il suo pronubo postumo, Maloof, e il film che ha girato con Charlie Siskel (Alla ricerca di Vivian Maier, Feltrinelli, Dvd più libro), ma perché non ha stampato tutti quei rullini, perché non ha mostrato le sue foto, non solo e non tanto ai Signori presso cui lavorava e viveva, ma al Mondo, a quel mondo che continuamente osservava con la sua Rolleiflex.
La fama postuma è in definitiva solo un problema di sociologia della fotografia, il suo vero mistero è quella indifferenza verso il suo «lavoro». In questo ricorda un altro autore, Joseph Michell, vero «scrittore di strada» (Una vita per strada, e Il segreto di Joe Gould, entrambi da Adelphi), anche lui oggi autore di culto, la cui opera appare nient’altro che la realizzazione della frase pronunciata dallo scrivano Bartleby di Melville: «Preferirei di no». Vivian Maier fotografava, ma poi preferiva di no. Il segreto della sua arte è in quel silenzio, oltre naturalmente che nel suo sguardo, l’unica cosa che ci resta davvero.