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 2015  luglio 09 Giovedì calendario

Se la Patetica non è patetica. Con il pianista Francesco Libetta a Spoleto Beethoven incontra Canova. L’interpretazione del maestro leccese rivela l’ispirazione operistica della celebre sonata

Una delle perle del festival di Spoleto di quest’anno è stato il concerto nella chiesa di San Nicolò del pianista Francesco Libetta: dedicato a Beethoven. Qualche mese fa scrissi della sua interpretazione della Sonata op. 109 la quale, insieme con quella op. 90, per l’essere nella luminosissima tonalità di Mi maggiore (quattro diesis), è a me la più cara. Questa volta Libetta s’è invece dedicato a scure tonalità cariche di bemolle: e già per il totalmente mutato timbro pianistico adottato nel corso della serata ha mostrato qual prodigio il suo cervello musicale, la sua sensibilità musicale, sia capace di trasmettere alle dita e alla tecnica pianistica. Gli accordi della Sonata in Do minore op. 13 e di quella – una delle più complesse per struttura e concezione – in La bemolle maggiore op. 110 parevano un sontuoso mantello: a volte mantello funebre.
Ma voglio principiare dalla Sonata in Fa maggiore op. 54 che il concerto medesimo ha aperto: quale varietà di concezione pianistica, quasi una summa della tecnica e della visione compositiva dello strumento! Dopo un inizio dimesso ( In tempo d’un Menuetto) incomincia un lungo drammatico passaggio per doppie ottave: la matrice ne è Clementi, quello che Mozart odiava («Un ciarlattano») per essergli, nel pianoforte, molto superiore. Poi una ripresa ornata di metafisici festoni. Quando viene il secondo movimento, l’Allegretto, ci troviamo di fronte a uno dei più clamorosi esempi del magistero di Bach nella musica pianistica di Beethoven: arpeggi lineari contrapposti come nei Preludî di Johann Sebastian. Solo un grande musicista e un pianista dalla tecnica superiore possono pervenire alla chiarezza mentale, prima, musicale e strumentale, poi, per tradurre la sublime visione senza degradarla a mero giuoco digitale. Libetta ha incantato tutti.
La Sonata op. 13 è delle più note e anche più funestate dai cattivi pianisti. Porta il sottotitolo di Pathétique; e qui mi sia concessa una digressione su tale aggettivo. A mio avviso esso, applicato alla Sesta Sinfonia di Ciaikovskij, affatto sconviene: per la portata universale d’un’opera che – ne fosse o non ne fosse conscio il medesimo Autore – non è il simbolo di vicende personali – ahimé, quanto ridicoli molti commentatori – ma è una vera apocalissi. La Sonata di Beethoven, anomala nella forma e nell’ iter tonale, è invece la sublimazione del pathos operistico: è concepita combinando l’idea di una Marcia funebre teatrale, di un’Aria di affanno, di sezioni in stile di Recitativo. Poi giunge quell’Adagio cantabile in La bemolle maggiore la purezza di canto del quale nessun operista aveva mai raggiunta. E il Rondò riporta la concitazione del furore drammatico elevandolo in sviluppi anch’essi agli operisti ignoti. Francesco Libetta, appena quarantaseienne, non solo ha studiato la Composizione con un grande come Gino Marinuzzi junior, ma possiede una conoscenza storica del linguaggio e dello stile musicale che hanno pochi altri pianisti: unito ciò alla sua tecnica ineguagliabile riesce a tradurre il pathos senza mai cadere nel patetico : dando di questa Sonata una versione alta e nobile che mostra la natura canoviana di Beethoven proprio nelle sue pagine che in apparenza meno canoviane sono: il Concerto per violino, il Triplo Concerto, il Quarto Concerto per pianoforte, tutti ne sappiamo cogliere l’aspetto di metafisica affinità col genio di Possagno.
La Sonata in La bemolle maggiore op. 110 è la penultima di Beethoven e una delle più enigmatiche: Libetta ne rende cristalline le difficoltà tecniche con arpeggi e festoni dei quali delibi ogni singola nota; pronuncia il canto quasi andando di là dalla stessa tecnica del pianoforte beethoveniano (l’Arioso dolente) e della terribile Fuga riesce a dare una radiografia piena di poesia che i misteri della pagina non chiarisce ma, se possibile, aumenta.
Noi italiani possediamo alcuni genî del pianoforte (in ordine discendente di età): Francesco Nicolosi, Vittorio Bresciani, Francesco Caramiello, Francesco Libetta, Nazzareno Carusi (Bresciani è il solo non meridionale; Libetta e Carusi non provengono dalla scuola di Vincenzo Vitale come gli altri tre). Libetta, nativo di Galatone presso Lecce e a Lecce residente per amore della sua terra, dovrebbe, come loro, essere chiamato dalle grandi orchestre mondiali, a partire da Chicago, Filadelfia, Monaco, Dresda: quando ciò accadrà si rivelerà la nostra superiorità anche in questo.