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 2015  luglio 09 Giovedì calendario

Ma Prodi non esulta per la condanna di Berlusconi: «In quella vicenda non sono stato offeso io, ma la democrazia. È molto peggio. Quanto avvenne allora ha sovvertito la vita democratica del Paese. I mass media restarono indifferenti, oggi sarei ancora premier»

Rispondendo al cellulare Romano Prodi sorride ma si trattiene, non sarebbe nel suo stile gongolare per la condanna del suo «nemico» politico. Eppure qualche soddisfazione se la toglie: «In quella vicenda non sono stato offeso io, ma la democrazia. È molto peggio. Quanto avvenne allora ha sovvertito la vita democratica del Paese». Di quei mesi durissimi e controvento il Professore dentro di sé ha annotato da anni tutti i suoi nemici, quelli espliciti (Mastella e Bertinotti), quelli che uscirono allo scoperto nel momento «giusto» (Dini), quelli che lo indebolirono con la loro iniziativa politica (Veltroni, Rutelli). E visto che sono usciti tutti di scena, è naturale chiedere se avesse ragione Francesco Cossiga che attribuì a Prodi lo spirito vendicativo di Tutankhamon. Il Professore sorride compiaciuto: «Ma no...».
Sorride perché una prima «strage» di suoi nemici si era consumata già dopo la fine del suo primo governo: Marini, che aspirava al Quirinale, dovette rinunciarvi e il successore a palazzo Chigi, D’Alema, restò presidente del Consiglio per un periodo non molto lungo.
Prodi si è convinto che senza le trame di Berlusconi, il suo governo avrebbe retto sino alla fine della legislatura? «In quei mesi avevo percepito delle voci, naturalmente non avevo certezze ma se fossimo riusciti ad avere delle prove e a dimostrarle, sarei ancora presidente del Consiglio». Una battuta certo, una battuta che Prodi ha affidato al giornalista Marco Damilano nel libro intervista «Missione incompiuta» e poi ha spesso ripetuto.
Il Professore, neppure in privato, ha mai coltivato rimpianti, certo si è sempre chiesto cosa avrebbero potuto realizzare i suoi due governi se fossero durati i 10 anni, anziché i 4 anni ai quali lo hanno costretti le «dissociazioni» della sinistra comunista e i vari «trasformismi». Eppure della vicenda De Gregorio, a Prodi brucia soprattutto un aspetto: «Fu una vicenda grave e alla fine quel che mi ha sempre colpito è stata la sostanziale indifferenza dei mass media che l’hanno considerata alla stregua di una delle tante vicende di corruzione della Seconda Repubblica».
Ecco perché il Professore ha sempre respinto la lettura di un suo «disimpegno» nella vicenda processuale, il suo non essersi costituito parte civile: «Ma figurarsi. Mi presentai al giudice con la lettera di De Gregorio nella quale si spiegava chiaramente cosa era successo: ad essere ferita non era la persona di Romano Prodi, ma l’essenza della democrazia».