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 2015  luglio 08 Mercoledì calendario

Ventimila borse di coca saranno distribuite ai fedeli che faranno ala al tragitto di Papa Francesco in Bolivia, dove oggi inizia la seconda tappa del suo viaggio latino-americano. Ma per i tre giorni della visita sarà vietato vendere alcolici. Così il governo di Evo Morales sta in tutti i modi cercando di trasformare la visita pastorale in uno spot in favore della campagna per la coca libera

Ventimila borse di coca saranno distribuite ai fedeli che faranno ala al tragitto di Papa Francesco in Bolivia, dove oggi inizia la seconda tappa di questo suo secondo viaggio latino-americano: ma per i tre giorni della visita sarà vietato vendere alcolici.
Mentre la «ley seca» è una decisione della municipalità di Santa Cruz, la ripartizione delle foglie di coca è invece un’iniziativa delle organizzazioni dei cocaleros. Ma Evo Morales resta tuttora il loro massimo dirigente, oltre che essere presidente della Repubblica. Ed è da quando si è iniziato a parlare di questa visita che il suo governo sta in tutti i modi cercando di trasformare la visita pastorale in uno spot in favore della campagna per la coca libera da tempo portata avanti di fronte all’Onu e alla comunità internazionale.
Già il 3 giugno, quando le ambasciate di Ecuador, Bolivia e Paraguay presso la Santa Sede avevano presentato a Roma l’organizzazione del viaggio, l’incaricata boliviana, Erika Farfan Mariaca, aveva preannunciato che per aiutare il Pontefice ad affrontare i 4.808 metri dell’aereoporto di El Alto gli avrebbero offerto un tè di foglie di coca. Dal tè si poi è passati a una torta, e ora si dice che Francesco masticherà direttamente le foglie.
Coca a parte, Evo Morales cercherà anche di dimostrare la vicinanza tra il proprio modello politico-economico e le prediche del Papa «peronista»: anche se al di là dell’immagine populista in realtà il suo governo ha sì fatto una forte politica di spesa pubblica grazie alle entrate del gas, ma ha anche mantenuto un rigore finanziario addirittura di tipo merkeliano, che ha favorito una crescita sostenuta, lontano mille miglia dal disastro economico portato avanti dal Venezuela di Chávez e Maduro.
È un contesto d’altronde simile a quello dell’Ecuador di Rafael Correa, che peraltro pur essendo il protettore di Assange è anche un cattolico relativamente ortodosso quanto a politiche della famiglia, tant’è che si è opposto sia all’aborto sia a politiche di controllo delle nascite non basate sulla continenza e ai matrimoni gay. Sia Morales che Correa hanno, però, contratto dall’esempio chavista una tentazione autoritaria che li ha portati a scontrarsi duramente con l’opposizione, e le settimane immediatamente precedenti la visita del Papa sono state piene di enormi manifestazioni di piazza al grido di «Francesco sì, Correa no!». Però, da quando domenica il Papa è arrivato si sono calmate, per dare spazio alla festa della fede. Per la verità, al suo arrivo a Quito, Correa ha provato a mettere il cappello sul Pontefice, manifestando la propria piena sintonia con le idee di «un gigante morale per credenti e non credenti». Francesco ha ringraziato, e ha garantito che per assicurare «un futuro migliore ai nostri fratelli più fragili e alle minoranze più vulnerabili» anche i presidenti populisti potranno sempre contare «con l’impegno e la collaborazione della Chiesa», trovandone «le chiavi nel Vangelo». Ma nel contempo l’ha però ammonito a «valorizzare le differenze e fomentare il dialogo».
Comunque di fronte al milione di persone che ha assitito alla messa nel Parco de Los Samanes a Guayaquil, compresi fedeli venuti da Colombia e Perù, s’è soffermato soprattutto sulla famiglia con una luna riflessione ripresa dal racconto che il Vangelo di Giovanni fa delle nozze di Cana. Una famiglia indicata come «una grande ricchezza sociale, che altre istituzioni non possono sostituire». Ieri un milione e mezzo di persone ha assistito alla seconda messa campale al Parque Bicentenario di Quito.