Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2015
Quel benedetto scudo della Bce che sta garantendo una sostanziale tenuta dei tassi di interesse e degli spread. Ben diverso l’impatto che ieri c’è stato sulla Borsa, con Milano che ha perso il 4%, nettamente il fanalino di coda in Europa, e con le banche fortemente penalizzate. Ora servirebbe un ombrello per far crescere i germogli fragili della ripresa dell’economia reale
Lo scudo della Bce – quanto è benedetto – sta garantendo una sostanziale tenuta dei tassi di interesse e degli spread. È possibile che per ora questo effetto duri e che la nuova crisi greca, nel breve, possa avere effetti relativamente contenuti sui tassi di interesse e quindi sul finanziamento del debito pubblico italiano. Ben diverso l’impatto che ieri c’è stato sulla Borsa, con Milano che ha perso il 4%, nettamente il fanalino di coda in Europa, e con le banche fortemente penalizzate.
Sono indicazioni di cui tenere conto, nel mare di parole sulle possibili conseguenze sull’economia italiana ed europea della vittoria del no al referendum greco. Al contrario di quanto avvenne nel 2011, quando la crisi dell’euro e della credibilità del governo italiano misero sotto pressione i tassi di interesse fino al record dello spread a 570 punti, rendendo realistica l’ipotesi di un cedimento della finanza pubblica, questa volta la crisi greca potrebbe stendere la sua ombra sui germogli di ripresa dell’economia reale, facendo avanzare il rischio che una possibile gelata possa vanificare i dati positivi che si cominciano a registrare. È un rischio da evitare.
La fiducia è davvero un germoglio fragile nel momento in cui si deve uscire da una crisi che dura ormai da otto anni. L’indice di fiducia delle imprese del manifatturiero, delle costruzioni e dei servizi è stato tra aprile e maggio ai livelli record dall’estate del 2008. A maggio, tuttavia, ci sono stati segnali di qualche modesta correzione. A giugno, sottolinea l’Istat nella sua ultima nota mensile, c’è stato un nuovo aumento, ma – si segnala – «sull’evoluzione ciclica europea pesa l’incognita relativa agli sviluppi della crisi greca». Anche tra i consumatori c’è una tendenza positiva, ma fragile: a maggio si è registrata una flessione, ma il bimestre aprile-maggio è comunque in salita sulla media del primo trimestre. L’indicatore anticipatore Ocse è aumentato dello 0,42% da ottobre scorso ad aprile 2015. In maggio il Pmi italiano, rileva il Centro studi Confindustria guidato da Luca Paolazzi, «segnala una sostanziale stabilità dell’espansione ai ritmi più elevati da dieci mesi».
Perciò ora in Europa, come in Italia, la priorità è non smarrire questo piccolo e fragile patrimonio di fiducia, sostenendo il più possibile l’economia reale. Certo, va trovata al più presto l’intesa con la Grecia, ma va contemporaneamente portata avanti una azione continua di sostegno alla risalita economica dopo gli anni più duri della crisi.
È una felice coincidenza che proprio nei giorni scorsi Bruxelles abbia sbloccato il Piano italiano per le imprese e la competitività, un pacchetto da 2,4 miliardi di euro. Ma è evidentemente ben altro quello che l’Europa deve fare per sostenere la crescita continentale. Se questo drammatico passaggio del referendum greco dovesse servire a favorire la svolta per la crescita, da più parti sollecitata, la vittoria del no potrebbe allora rivelarsi un calice meno amaro di quanto preventivato. Le cose da fare sono tante. Su tutte il piano per gli investimenti, che non può limitarsi alla finzione del piano Juncker. L’Europa ha la straordinaria opportunità, nella sua struttura di governo multilivello, di poter attuare politiche diverse a livelli diversi. Difficile ipotizzare una politica di forti investimenti pubblici finanziati dai singoli bilanci di Stati già fortemente indebitati, ma al livello europeo è davvero una grave colpa quella di non aver raccolto e investito grandi risorse impiegabili in infrastrutture e iniziative produttive proprio in quegli Stati più in difficoltà. Anche le stesse possibilità per la Grecia di riprendersi passano da qui, non certo dai numeri e numeretti delle tasse da aumentare come veniva fatto nell’ultima proposta dei creditori. Un tardivo ripensamento appare difficile, ma se non ora quando. Sarebbe, finalmente, un bel segnale di leadership politica europea.
Ma i germogli della crescita vanno alimentati in Italia soprattutto con un impegno senza incertezze sull’attuazione delle riforme che sono già legge e dalla rapida approvazione delle (fondamentali) riforme che restano da fare. Attuazione, attuazione, attuazione. A cominciare dai decreti fiscali, dove deve trovare una soluzione la questione della tassazione degli immobili di impresa, con quella assurda tassa sui grandi macchinari imbullonati, che è una vera tassa su chi produce. Eppoi lo sblocco dei cantieri e degli investimenti, e le relative semplificazione nel settore edilizio, nella consapevolezza che da qui è sempre passata gran parte della capacità italiana di produrre crescita economica; la definizione degli ultimi provvedimenti che restano per dare attuazione al Jobs act; il decreto banda larga. Tra le riforme da fare o completare resta prioritaria quella straordinaria leva di crescita che può, e deve, diventare la riforma della pubblica amministrazione. Ma ai primissimi posti c’è anche l’attivazione di un mercato dei crediti deteriorati che possa rilanciare in modo significativo il credito bancario, vero crocevia
della ripresa.
Di certo, quello che non serve è una nuova fase di turbolenza politica, nella quale smarrire il senso delle riforme e del rilancio della capacità produttiva del Paese. La fiducia di chi produce e investe in Italia ha ancora bisogno di vedere proseguire con determinazione il lavoro di cambiamento del contesto legale e competitivo nel quale si lavora. Mentre Draghi mantiene il suo ombrello sui nostri BTp, sarebbe bene che la politica – in Italia come in Europa – allargasse quest’altro ombrello per far crescere i germogli fragili della ripresa dell’economia reale.