Il Messaggero, 7 luglio 2015
Le spie della letteratura che salvano il mondo. Da Kipling a Le Carré, gli 007 «servono ad evitare le guerre. Il loro compito è mantenere l’equilibrio delle forze contrapposte. Ecco perché è bene che i segreti di entrambe le parti non rimangano troppo a lungo tali»
«Un’attività affascinante, quasi uno sport, un’occasione di divertimento e di avventura» sosteneva nel 1915 sir Robert Baden-Powell, il fondatore dello scoutismo. «Un lavoro nel complesso monotono, in buona parte di una totale inutilità» affermava invece pochi anni più tardi William Somerset Maugham. Queste due frasi ben riassumono le diverse concezioni dell’attività spionistica nella letteratura del Regno Unito che viene analizzata da Paolo Bertinetti nel suo eccellente saggio Agenti segreti. L’Inghilterra è il paese in cui in misura maggiore la narrativa ha dato spazio a personaggi che si muovono nell’ombra, i funzionari dei servizi protagonisti delle storie che cominciarono ad affascinare il pubblico sin dall’inizio del secolo scorso.
Al debutto il genere aveva intenti dichiaratamente patriottici. Sul fronte internazionale si temeva infatti la minaccia della Francia, grande rivale nel processo di espansione coloniale, e della Russia con cui c’erano fortissime tensioni per il controllo dell’Asia centrale. Sono loro i nemici da battere nelle vicende inventate tra gli altri da Kipling, che tra il 1900 e il 1901 pubblica a puntate Kim offrendo una sintesi di quello che veniva definito «il grande gioco». Poi, dopo che nel 1904 fu firmato un trattato di non belligeranza con la Francia, l’avversario divenne la Germania e in gran parte dei volumi usciti a inizio Novecento i cattivi sono tedeschi, mentre i valorosi britannici sono impeccabili gentiluomini pronti a svolgere un lavoro rischioso per difendere la patria dalla minaccia straniera, rappresentata in seguito dalla Russia comunista. La svolta, almeno sotto il profilo letterario, è databile alla fine degli anni Venti quando Maugham pubblica Ashenden con un protagonista ritenuto da Bertinetti «il primo agente segreto che rappresenta un antieroe inventato da un autore che propone l’universo dello spionaggio in modo realistico». A lui si ispireranno i maestri della spy story del disincanto, in particolare Eric Ambler, Graham Greene e John le Carré capaci, sottolinea Goffredo Fofi in una nota introduttiva al saggio, di spiegare a più generazioni di lettori il modo in cui il potere agisce nel mondo. Proprio le Carré, del resto, decise di definire gli uomini che si muovono dietro le quinte «una squallida processione di pazzi vanitosi, traditori, sadici e ubriaconi, gente che gioca ai cowboys e agli indiani per riuscire a movimentare in qualche modo la propria vita meschina».
LA SAGASul versante opposto giganteggia invece la figura di James Bond, la cui saga inizia nel 1953 con Casino Royale è diventa un personaggio di popolarità planetaria grazie ai film che iniziarono ad essere prodotti negli anni Sessanta. Ian Fleming riuscì meglio di ogni altro a dar corpo ai fantasmi, ai desideri e alle inquietudini dell’intero occidente grazie al suo personaggio. Offrendo una opportunità di riscatto alla Gran Bretagna grazie a un protagonista che si batte contro gli avversari venuti dall’Est «con una larghezza di mezzi impensabile per un’Inghilterra che anche nelle occasioni internazionali e industriali più impegnative e di rappresentanza fa ormai solo figure da pezze al didietro», secondo un caustico Alberto Arbasino che applica alla serie la stessa definizione adottata dal poeta Ezra Pound per i Tropici di Henry Miller: libri impubblicabili che sono almeno leggibili. Violento, donnaiolo, cinico, snob, Bond ottiene un successo strepitoso nei paesi orgogliosi di esser parte di un Impero del Bene alle prese con i perfidi agenti venuti dal freddo dell’Est comunista. Teorizza Fleming: «Le spie servono ad evitare le guerre. Il loro compito è mantenere l’equilibrio delle forze contrapposte. Ecco perché è bene che i segreti di entrambe le parti non rimangano troppo a lungo tali». A giudizio di Bertinetti, comunque, la perdurante fama di questa figura si deve al cinema che lo ha reso un eroe iconico.
Se i bestseller di Fleming sono in fondo solo fiabe, a giudizio dello studioso occorre guardare ai romanzi di Le Carré per avere un quadro realistico della vita nei servizi e degli scontri sotterranei tra le grandi potenze mentre il confine tra “bene” e “male” pare incerto. Le Carré ha messo la suspense al servizio della rappresentazione del mondo di fine Novecento e di inizio del nuovo millennio cogliendone trasformazioni e infamie. Per questo va considerato uno dei maggiori narratori inglesi del secondo Novecento, addirittura «il più importante» secondo Ian McEwan perché è riuscito a superare persino un maestro come Greene nell’utilizzare lo specchio dello spionaggio per ritrarre una contemporaneità piena di ombre.