Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  luglio 03 Venerdì calendario

Attenti ai cattivi robot. Da quelli ribelli di Capek, a quelli sempre più simili agli umani di Asimov, fino a quelli vendicativi di Dick. Intanto in uno stabilimento tedesco della Volkswagen, a un centinaio di chilometri da Francoforte, un robot ha schiacciato e ucciso un operaio di 22 anni, impegnato a montare il braccio meccanico dell’automa. Ma è successo per un «errore umano degli installatori»

Fu lo scrittore ceco Karel Capek a inventare il «robot», non l’immagine dell’automa, che già esisteva dal tempo dei sacerdoti egiziani (le «statue parlanti» venivano impiegate a scopo religioso e rituale), ma il termine. Nella commedia satirica R.U.R (sigla della definizione Robot Universali di Rossum), scritta nel 1920, Capek mise in scena un ingegnere, Rossum appunto, inventore di creature tecnologiche capaci di lavorare come gli uomini per liberarli dalla schiavitù del lavoro fisico. Inutile dire che finirà male: gli umani si lasciano andare all’indolenza e al vizio, e i robot si ribellano ai loro stessi creatori con effetti catastrofici.
Era una sorta di satira del capitalismo industriale e dell’alienazione operaia. Mai il drammaturgo ceco avrebbe immaginato che il frutto della sua immaginazione fantascientifica potesse realizzarsi nel giro di un secolo. Esattamente lunedì scorso, quando in uno stabilimento tedesco della Volkswagen, a Baunatal, un centinaio di chilometri da Francoforte, un robot ha schiacciato e ucciso un operaio di 22 anni, impegnato a montare il braccio meccanico dell’automa. «Errore umano degli installatori», ha precisato un portavoce della casa costruttrice di Wolfsburg. Nessuna responsabilità del robot, nessuna intenzione omicida. Il movente non esiste, perché se esistesse bisognerebbe prendere per vera, in toto, la visionarietà di Karel Capek, e cioè attribuire alla macchina un’anima, un risentimento, un desiderio di vendetta contro l’umanità che ha deciso di delegarle il carico della fatica più immane. Senza però dimenticare che, come osservano Roberto Cingolani e Giorgio Netta in un saggio di recente uscita per il Mulino, Umani e umanoidi, si pone con urgenza il problema della coabitazione tra gli esseri umani e la popolazione crescente delle macchine automatiche (calcolabile in centinaia di milioni): «Nulla che abbia a che fare con la presa di coscienza, la ribellione o i sentimenti dei robot», ma più semplicemente si renderanno necessarie «delle precise norme e regole di comportamento», così come non si può rinunciare a un codice della strada che regoli il flusso delle automobili.
Fatto sta che la forza simbolica dell’evento di Baunatal rimane intatta e fortemente suggestiva, visto che quando pensiamo agli androidi siamo subito sommersi da visioni cinematografiche e letterarie tutt’altro che rassicuranti. Leggendo L’uomo della sabbia, il racconto di Hoffmann che narrava l’attrazione fatale tra l’automa Olimpia e il protagonista Nataniele, Sigmund Freud inventò il concetto psicanalitico di «perturbante»: l’angoscia che nasce di fronte a qualcosa che ci è spaventoso e insieme familiare. All’inquietudine generata dalla vita apparente di un oggetto inanimato e all’ambiguità del trovarsi tra mondo reale e mondo fantastico, Freud non poteva che aggiungere il «fattore infantile», cioè il richiamo all’«angoscia dell’evirazione». Ma al di là delle spiegazioni più raffinate dell’inconscio, resta probabile che il successo di tanta fantascienza sia dovuto al fatto che l’essere artificiale mette in gioco l’incertezza e la fragilità della condizione umana al cospetto dell’universo. Il primo racconto di Isaac Asimov, Robbie, del 1940, narrava la vicenda di un robot amico, una sorta di babysitter bonaccione e anzi altamente protettivo: ma via via che procedeva nella sua produzione, lo scrittore russo, sempre salvaguardando la loro affidabilità e la loro buona disposizione verso gli uomini, andava aggiungendo ai personaggi-automi una più viva sensibilità e facoltà intellettuale al punto da renderli simili a noi. Philip K. Dick la pensava diversamente: secondo lui, non c’è pace in un mondo invaso dagli androidi. Più noi li perfezioniamo a nostra immagine e somiglianza rendendoceli empatici, più loro matureranno la tentazione di farci fuori. Il povero operaio di Baunatal forse gli darebbe ragione.