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 2015  luglio 03 Venerdì calendario

Addio all’ultima miniera inglese. Nel cuore dello Yorkshire, a 280 chilometri da Londra, i 400 lavoratori della cooperativa che gestiva l’impianto di Hatfield si sono arresi: «Nessuno compra più il carbone, non aveva più senso continuare a produrlo». Una vita difficile tra danni alla salute, rischi mortali, lotte con i proprietari e scioperi contro i governi: «È vero, avevamo stipendi da fame, ma ora nemmeno quelli»

Con il casco giallo in testa, gli stivaloni ai piedi, il giaccone fosforescente addosso, i minatori ammassati sulla piazzola d’ingresso sembrano pronti per un altro turno sotto terra. Ma l’ascensore che dovrebbe portarli giù, a ottocento metri di profondità, è fermo. Sono venuti al lavoro soltanto per abitudine, per stare insieme, per consolarsi a vicenda. Due giorni or sono Hatfield, l’ultima miniera d’Inghilterra, ha annunciato a sorpresa la chiusura immediata: le cose non andavano bene, ma nessuno pensava a un epilogo così repentino.
«Non riusciamo più a trovare un mercato per il carbone», spiega sconsolato Michael O’Sullivan, portavoce della cooperativa che da due anni gestisce autonomamente la miniera, «perciò non aveva più senso continuare a produrlo».
Gli ultimi soldi rimasti, avanzi di un prestito di quattro milioni di sterline ricevuto dal sindacato, serviranno a pagare gli stipendi sino a fine mese e le liquidazioni. C’è ancora qualcosa da fare, tuttavia: stamane inizierà l’operazione per riempire di terra il pozzo. Colmata la gigantesca fossa, ben presto non resterà più niente a ricordare che per 99 anni da questo antro scuro è uscito il combustibile della rivoluzione industriale. «Riempiremo il buco e sarà come seppellire noi stessi», predice uno degli uomini in casco e stivali, sputando tabacco. Qualcuno propone di scriverci sopra due date, come su una tomba: 1916-2015. Fine di un’epoca.
Nel suo romanzo “E le stelle stanno a guardare”, cronaca di una miniera inglese come questa all’epoca della prima guerra mondiale, A. J. Cronin paragonava la sagoma dell’impalcatura sopra il pozzo a un patibolo. L’immagine è appropriata. La vita non è mai stata facile per i minatori, tra danni alla salute, rischi mortali, salari da fame, lotte con i proprietari, scioperi contro il governo della Thatcher, repressioni poliziesche, privatizzazioni e poi un graduale, inarrestabile declino.
 Da tempo i 430 dipendenti di Hatfield emergevano da turni di 12 ore con la faccia sporca e l’angoscia nell’anima, preoccupati per il proprio futuro. Eppure erano rimasti attaccati a questo duro mestiere, lontano anni luce dalle miracolose start-up miliardarie della Silicon Valley, ancora profondamente legato a una concezione operaia del lavoro, alla solidarietà umana, a un cameratismo da trincea. Non per caso l’ Economist di questa settimana equipara i minatori di Hatfield a soldati in guerra – una guerra che sapevano di non poter vincere. E allora perché continuare a combatterla? «Per la fratellanza che sento verso i miei compagni», taglia corto Dave Wilson, 67 anni, veterano del gruppo. «Perché là sotto ognuno dipende da chi gli sta a fianco». Anche i veterani del Vietnam davano risposte simili. Commenta l’inviato del raffinato settimanale londinese: «Pensavo di provare compassione per questa gente. Dopo averli incontrati, provo ammirazione».
Come in una parabola sul declino industriale dell’Occidente, le miniere dello Yorkshire e del Galles non chiudono perché il materiale estratto non serve più, bensì perché è diventato improduttivo, oltre che impopolare, estrarlo da quaggiù, nel luogo in cui in un certo senso sono cominciati la storia e il mito degli uomini che si calano sotto terra, con una lampada sul casco, per scavare i tesori del sottosuolo. Il carbone fornisce ancora un quarto del fabbisogno energetico mondiale, ma in Gran Bretagna come in altri paesi d’Europa e negli Stati Uniti ha dovuto fare i conti con due fenomeni: da un lato l’allarme per l’inquinamento e la crescente possibilità di alternative meno dannose per l’ambiente, dal gas alle energie rinnovabili; dall’altro il calo dei prezzi sui mercati internazionali, conseguenza del costo infinitamente più basso di produrre carbone altrove. Così quello che si continua a bruciare nel Regno Unito, e in genere negli altri paesi occidentali, proviene da miniere russe e colombiane, lasciando quelle inglesi e gallesi senza clienti.
«È un’ingiustizia», tuona Ed Miliband, deputato laburista dello Yorkshire, eletto a Doncaster, nella circoscrizione in cui sorge la miniera di Hatfield. Sì, è proprio lui, lo stesso Miliband fino a due mesi fa leader del Labour, pesantemente sconfitto dal conservatore David Cameron nelle recenti elezioni: battuto alle urne forse anche perché faceva battaglie ancorate al passato, come difendere i diritti dei lavoratori in un mondo globalizzato che spesso li ignora o li calpesta. Miliband ha chiesto l’intervento del ministro dell’Energia per evitare la chiusura della miniera: «Mi ha risposto che non c’è niente da fare». Allora ha chiesto un dibattito alla camera dei Comuni: non è servito neanche questo.
“The end”, titola senza mezzi termini il Doncaster Free Press, quotidiano locale. Forse non ci sono soluzioni alternative: è la legge del mercato, sommata all’allarme per il cambiamento climatico, a far voltare pagina. Nessuno rimpiange certamente il “fumo di Londra”, quando la metropoli, come altre grandi città industriali, era avvolta in una fitta ca- ligine provocata dal riscaldamento a carbone. «Sì, ma io adesso cosa farò?», si domanda uno dei 400 e passa rimasti disoccupati ad Hatfiled. «Chi ha bisogno di un ex minatore di 54 anni?».
La sorte sua e dei suoi compagni potrebbe essere addolcita dai paracadute del sindacato: prenderanno comunque una pensione. Ma ad Hatfield si ha l’impressione che scompaia qualcosa di più di 400 minatori dello Yorkshire: bisognerebbe almeno essere consapevoli che è l’ultimo capitolo di una vicenda lunga e a tratti gloriosa.
Doncaster, il capoluogo regionale, è una cittadina di 60 mila abitanti a soltanto 280 chilometri da Londra, basta un’ora e mezzo di treno per raggiungerla dalla capitale, ma sembra di sbarcare su un altro pianeta: qui le mille luci della Cool Britannia non sono mai arrivate. Una sensazione ancora più netta ad Hatfield, il villaggio di 6 mila persone accanto alla miniera, case basse e mezza dozzina di pub: erano il ritrovo dei minatori dopo il lavoro, ora rischiano di chiudere anche questi.
Certo, è risaputo che la geografia economica dell’Inghilterra odierna è un’Italia alla rovescia, con il sud ricco e tirato a lucido, il nord povero e disagiato: basta venire da queste parti per accorgersene. Non è sempre stato così, naturalmente. La rivoluzione industriale partì al nord, a Manchester, Liverpool, Sheffield, e il vicino Yorkshire forniva alle fabbriche delle città l’energia per alimentarle. All’epoca, un milione di persone lavoravano nell’industria del carbone inglese. Poi l’industria ha perso peso nell’economia nazionale, sostituita dai servizi e, soprattutto, dal formidabile polmone finanziario della City londinese.
Adesso in tutto il Regno Unito restano teoricamente in funzione solo altre due miniere, teoricamente perché la loro chiusura è già prevista per il 2016. La miniera di Hatfield, passata nel corso del tempo dai privati allo stato ai privati alla cooperativa di minatori, era invece l’unica e l’ultima che sperava di rimanere aperta a oltranza. Il suo smantellamento appare dunque come un segnale definitivo, davvero il tramonto di un’epoca, anzi di un’epopea, celebrata da leader come Arthur Scargill, il sindacalista carismatico poi sconfitto dalla Thatcher, da film come “Billy Elliot”, canzoni come “Collier Sweetheart”, romanzi come quello di Cronin, reso famoso anche in Italia da una riduzione televisiva della Rai negli anni ‘60.
«Il colpo secco della sbarra di chiusura, i rintocchi lontani d’una campanella, i minatori tutti in piedi, ammassati nella gabbia, nell’incerta luce dell’alba, e là sotto il nero abisso della loro esistenza»: è la conclusione di “E le stelle stanno a guardare”, ma andrebbe bene anche come epitaffio per l’ultima miniera d’Inghilterra.