Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2015
Il pasticciaccio Fincantieri, una vergogna italiana, scrive Il Sole 24 Ore. Può un cumulo di ferraglia costringere alla chiusura una multinazionale con ordini in casa per 1,8 miliardi di euro? Può una vicenda da sottoscala di pretura gettare il fumo del discredito su un’impresa, eccellenza del made in Italy, tornata nell’élite mondiale della cantieristica? Può un assurdo garbuglio burocratico-giudiziario richiedere quattro processi?
Può un cumulo di ferraglia costringere alla chiusura una multinazionale con ordini in casa per 1,8 miliardi di euro? Può una vicenda da sottoscala di pretura gettare il fumo del discredito su un’impresa, eccellenza del made in Italy, tornata nell’élite mondiale della cantieristica? Può un assurdo garbuglio burocratico-giudiziario richiedere quattro processi? Può, la ferraglia, impegnare mezzo Governo per approvare un decretino che consenta a Fincantieri di tornare, in tempi rapidi, a produrre navi a Monfalcone? Nel mondo intero non ci sarebbe occasione per porre domande di questo genere. In Italia, invece, la risposta è drammaticamente «sì». Come in un film di Buñuel.
Perché il nocciolo del sequestro dello stabilimento Fincantieri di Monfalcone – 4.500 dipendenti, 400 imprese dell’indotto e tre navi attualmente in costruzione – sta nella risposta a questa fondamentale questione giuridica: gli scarti dei prodotti usati per la costruzione delle navi (pezzi di lamiera, sfridi, cavi, stoffe, moquettes...) sono di proprietà di Fincantieri o delle imprese di subappalto che li lavorano? Per stabilirlo sono serviti due gradi di giudizio di merito (sono di Fincantieri), una sentenza di Cassazione (primi due gradi annullati) e un terzo processo di merito (sono delle ditte appaltatrici). Dopo quattro processi e due anni di aule di tribunali, la risposta alla fondamentale questione ha avuto come conseguenza il sequestro dello stabilimento. Perché Fincantieri non può stoccare gli scarti in attesa che vengano inviati allo smaltimento. Lo devono fare le ditte del subappalto. Beninteso, non si parla di prodotti pericolosi o nocivi, ma di rifiuti speciali, ma innocui.
Premesso che il Governo farebbe benissimo ad approvare senza indugi né scrupoli qualunque norma – ad personam, ad aziendam, ma in questo caso ad Paesem – possa sbloccare al più presto la produzione di Fincantieri, bisogna interrogarsi su alcune questioni di natura generale che echeggiano da Monfalcone.
La prima è la congruità delle norme e la proporzione tra i reati e le sanzioni previste e irrogate. È palese che in casi come questo quattro gradi di giudizi sono un obbrobrio giuridico e una sanzione amministrativa sarebbe più che sufficiente. Ma la cultura anti-impresa che aleggia in Italia ed emerge in ogni occasione impedisce serenità legislativa e processuale. In questo caso, non è l’unico, si recepisce una direttiva Ue in maniera più restrittiva e si dà l’ergastolo per il furto di una mela.
La seconda questione è la difficoltà di dialogo tra le imprese e le Procure. Possibile non ci sia altra strada che il processo per sanare molte bagattelle dagli effetti nefasti? Possibile che non si possa cercare una strada per risolvere ex-ante problemi di importanza minima?
Consentire alle imprese che ci sono di lavorare serenamente è il passo fondamentale per indurre le multinazionali estere a investire in Italia. Una priorità molto sbandierata e all’atto pratico poco perseguita.