La Stampa, 1 luglio 2015
La prima volta dei bianconeri. Il 10 aprile 1905, in undici righe, La Stampa dava la notizia del primo campionato vinto dalla Juventus. In squadra studenti, impiegati e un centravanti proletario: nella vocazione a mescolare le classi il segreto dello sport più nazional-popolare
Lo scorso 3 maggio, il giorno dopo la conquista matematica dello scudetto da parte della Juventus, a Genova contro la Sampdoria, La Stampa è uscita con uno speciale di otto pagine, più tre pagine interne nello Sport e richiamo in prima. Cento e dieci anni fa, il 10 aprile 1905, lo stesso avvenimento – e sempre, guarda caso, dalla stessa città – era liquidato così: «Ci telefonano da Genova, 9, ore 23: “Oggi ebbe luogo il nuovo incontro tra la prima squadra del Genoa Cricket e dell’Unione Sportiva Milanese per il campionato nazionale. Le due squadre segnarono entrambe due goals. Così la squadra di Genova segna in totale cinque punti e quella di Milano un punto. Il Club Juventus di Torino vince così con sei punti, per la prima volta, il campionato nazionale delle prime e seconde squadre”». Undici righe, nella terza delle quattro pagine che annoverava allora il quotidiano, sotto il titoletto «Foot-ball / Il campionato italiano / La vittoria dei torinesi». Precedute, nella sezione Sport, dai risultati delle gare di lotta, e seguite, con maggiore sviluppo, dalla presentazione delle corse ciclistiche, dai risultati dell’ippica, del tiro al piccione e delle corse dei «canotti automobili».
In quei giorni sulla Stampa si contendevano gli spazi maggiori la guerra russo-giapponese per il controllo della Manciuria e della Corea, un disastroso terremoto in India, le cronache dell’agitato avvicendamento alla guida del governo tra Giolitti, Tittoni e Fortis, le feste per l’apertura del Sempione. L’ultima pagina era occupata da un paio di feuilleton (Le operaie di Parigi di Pietro Decourcelle,Felicità perduta di Giorgio Maldague), e per il resto da un gran numero di inserzioni pubblicitarie, che raccontano di una società assillata dalle sollecitudini igienico-sanitarie (cure per i denti, per la tosse asinina, per la «sifilide costituzionale» e la blenorragia, «the purgativo», ricostituenti, «Jockey savon», «sapone Abrador», oltre a biciclette d’occasione, macchine per scrivere Ideal, «specialità biscotto prussiano», casseforti, bachi da seta).
Una passione di pochi
Come osservava il giornale, per la squadra torinese fondata otto anni prima da un gruppo di squattrinati liceali del D’Azeglio, non ancora Vecchia Signora ma tutt’al più Signorina, era una prima volta: la prima delle 33 volte in cui il club più amato – e, va da sé, più odiato - d’Italia ha terminato in testa il campionato (per la verità accadde anche in altre due occasioni, 1908 e 1909, che nella aurorale confusione fra torneo nazionale e torneo federale non vennero omologate negli annali). Ma il calcio era allora agli albori, una passione di pochi, sovrastata, nel Nord-Ovest, da quella per il pallone elastico, anche se già manifestava quella vocazione a mescolare le classi che ne avrebbe fatto, nel corso del secolo, lo sport nazional-popolare per eccellenza, centro totemico di un rito di massa che dividendo unisce.
Nell’undici campione d’Italia c’erano rampolli dei ceti elevati, studenti di ingegneria (Gioacchino Armano, terzino, Carlo Vittorio Varetti, attaccante e nel 1907, appena ventitreenne, presidente della società), di medicina (Oreste Mazzia, terzino), di legge (le ali Alberto Barberis e Domenico Donna, anche poeta), un futuro importante pittore (Domenico Durante, portiere), ma pure impiegati (Giovanni Goccione, centromediano, lo svizzero Paul Arnold Walty e l’inglese James Squair, mezze ali, lo scozzese Jack Diment, mediano), oltre al centravanti Luigi Forlano, verace prodotto del proletariato, «l’uomo più lunatico del mondo» – come lo avrebbe tratteggiato Donna -, destinato a cadere al fronte nella prima guerra mondiale (e suo figlio Bruno, calciatore del Novara, sarebbe morto nella seconda). A parte gli stranieri, erano tutti piemontesi, molti (anche tra gli studenti) lavoravano nell’industria tessile del presidente del club, lo svizzero Alfred Dick, che l’anno seguente avrebbe capeggiato la secessione da cui nacque il Torino (nell’occasione licenziando il futuro avvocato Barberis che aveva rifiutato di seguirlo).
Il cross del «sig. Donna»
Sono poco più che ventenni, ma a guardarli, nell’unica storica foto di squadra, paiono uomini fatti, con quei fieri baffoni umbertini a manubrio ostentati da più d’uno, oltre alla coppoletta portata anche in campo, il foulard al posto della cintura. E La Stampa ne riferisce le gesta con il dovuto sussiego. «Verso le 16,20 circa, il sig. Donna, dopo una splendida volata, riesce, benché marcato dal forte Bugnon, a passare il pallone al Forlano che con uno splendido calcio segna il primogoal a favore dei bianco e neri». Signor. Così la cronaca, eccezionalmente più dettagliata del solito, del match-clou «pel Campionato italiano» disputato il 2 aprile contro i sei volte campioni (e campioni in carica) del Genoa Cricket and Athletic Club. Risultato finale 1 a 1, terreno di gioco l’oggi scomparso velodromo Umberto I a Torino, nei pressi dell’ospedale Mauriziano, che nel 1898 aveva ospitato il primo torneo nazionale a quattro, vinto dai genovesi.
Nel 1905 le squadre partecipanti erano state sei – due per ognuno dei tre gironi regionali, piemontese, ligure e lombardo – ma la Us Torinese aveva rinunciato alla sfida con la Juventus (aiutata dalla sorte fin da allora, malignerà qualcuno) che così passò direttamente al girone nazionale: e qui, tra l’inizio di marzo e l’inizio di aprile, si risolse tutta la faccenda. I “bianco e neri” affrontarono la Us Milanese (due vittorie, 3 a 0 e 4 a 1) e il Genoa (due pareggi per 1 a 1). Quattro partite, in totale sei punti, sufficienti per vincere il titolo. Che non era ancora lo scudetto, bensì una coppa, denominata Spensley.
Pagliette e velette
Erano tempi in cui il «giuoco» del calcio cominciava appena a emanciparsi dagli altri sport: Edoardo Bosio, giovane ragioniere che nel 1887 lo aveva importato dall’Inghilterra, aveva fondato a Torino una società che praticava il football in inverno e il canottaggio d’estate, e lo stesso Enrico Canfari, secondo presidente della Juventus dopo il fratello Eugenio, si era diviso a lungo tra il pallone (di quelli a dieci sezioni di cuoio, con la cucitura a laccio, che a colpirli di testa facevano male) e l’attività podistica. Il terreno di gioco si chiamava pelouse, alla francese (fino a pochi decenni prima Torino era stata sostanzialmente bilingue), e il resto all’inglese: gli attaccanti erano i forwards, l’arbitro il referee, la porta era spesso designata come goal, meta, e alle partite (matches) assistevano (piccole) folle di «sportsmen, ufficiali, studenti».
Li vediamo nelle rare immagini d’epoca, assiepati in piedi ai bordi del campo, incravattati, in un trionfo di lobbie, pagliette e qualche bombetta, le biciclette appoggiate alla bassa staccionata, poche o nessuna le signore, coinvolte soprattutto a casa, a lavare e stirare le divise dei figli o dei giovani mariti, e quelle poche elegantemente abbigliate con vezzosi cappellini e velette. Ultimi fotogrammi di una Belle Epoque che di lì a pochi anni sarà inghiottita dalla Grande guerra.