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 2015  luglio 01 Mercoledì calendario

Aveva raccontato il delitto in un libro. Così Daniele Ughetto Piampaschet è stato condannato a 25 anni per l’omicidio premeditato della prostituta nigeriana Anthonia Egbuna. Fece ritrovare cadavere in una diga

«Mi vuoi uccidere? Tornerò a disturbarti». Sono le ultime parole di una prostituta nigeriana nel racconto «Il bracciale di corallo», uno dei tanti della sterminata produzione – ma inedita, nonostante i tentativi di trovare un editore – di Daniele Ughetto Piampaschet, 36 anni, condannato per aver ucciso Anthonia Egbuna, 20 anni. Anche lei nigeriana, come la donna del racconto, costretta a prostituirsi sulle strade del torinese fino al novembre 2011, data in cui se ne persero le tracce Il Po avrebbe restituito il suo cadavere martoriato da coltellate a febbraio 2012. 
Che l’uomo abbia descritto in un racconto l’omicidio della giovane che ha sempre detto di amare fu bollata come «ipotesi suggestiva» dai giudici di primo grado. Ma il loro verdetto di assoluzione è stato ribaltato ieri in appello: 25 anni e mezzo di carcere. Il procuratore generale Antonio Malagnino aveva chiesto l’ergastolo. Per ora, Piampaschet, scarcerato un anno fa, resta in libertà.
Sono tre gli scritti riportati dall’accusa come indizi gravi di colpevolezza, addirittura una «confessione extragiudiziale». Ma se il verdetto è stato ribaltato è soprattutto per i nuovi elementi portati, due in particolare. Il primo, la ricostruzione degli spostamenti di vittima e killer sulla base dei tabulati telefonici: nell’ultimo giorno in cui Anthonia era in vita, percorse con Daniele la strada da Carignano a Torino fino alla diga in cui il suo corpo è stato gettato. Secondo: Daniele ha mentito quando ha ricostruito quel giorno. Per l’accusa, ha ucciso per gelosia, lui che aveva cercato di togliere Anthonia dalla strada così come aveva fatto con altre prostitute nigeriane. «L’Africa per me – scriveva – significava Nigeria. E Nigeria significava le donne. E le donne significava le prostitute, così chiamate da tutti ma per me rappresentavano l’Assoluto in terra». Laureato in Filosofia con una tesi sulla religione Edo, diffusa in Nigeria, Piampaschet non trovava lavoro: frustrato nelle ambizioni letterarie, tramite un sacerdote aveva cercato anche sbocchi in Africa. Frequentava le prostitute. A volte si innamorava: come con Joy, sottratta ai suoi sfruttatori, che al processo parlò con affetto e gratitudine di Daniele, che ieri uscendo dall’aula sostenuto dai genitori e dalla sorella ha detto: «Sono innocente, questa sentenza tutela una banda di mafiosi». Suggestiva o meno che sia l’ipotesi dello scrittore assassino, per la giustizia Piampaschet è il killer. Il suo avvocato Stefano Tizzani annuncia che non mollerà e la battaglia si sposterà in Cassazione. Resta un fatto: i giudici di primo grado erano stati duri su un’indagine che non aveva sviscerato l’ambiente degradato in cui viveva Anthonia: «É stata uccisa una prostituta sicuramente soggetta allo sfruttamento spietato di organizzazioni criminali... sarebbe stato forse opportuno indagare le maman, gli uomini che orbitavano intorno a esse, fare chiarezza su un ambiente dove la criminalità la fa da padrona». Il killer di Anthonia ha un nome: ma quella chiarezza è stata fatta? Forse anche questo significa rendere giustizia a una ragazza di cui nessuno rivendicò il corpo, riconosciuta grazie alle impronte digitali prese quando, un anno prima di morire, fece richiesta di asilo politico.