Corriere della Sera, 1 luglio 2015
Il dialogo fra sordi tra industria e magistratura. Il caso di ieri che ha portato al fermo degli impianti della Fincantieri a Monfalcone è solo l’ultimo esempio e arriva dopo l’altro pasticcio che sta compromettendo il salvataggio dell’Ilva di Taranto. Ecco perché bisogna costruire un’ipotesi di lessico comune
Tra tanti convegni, spesso inutili, quello che aspettiamo da tempo (invano) riguarda i rapporti tra magistratura e industria. E non sarebbe male se Confindustria e Anm si dessero da fare per colmare il vuoto. L’impressione che si ha, infatti, è di un dialogo tra sordi: l’impresa non riesce a spiegare come sia radicalmente cambiato il proprio campo di gioco e i magistrati paiono rimaner legati a vecchie interpretazioni e a logori pregiudizi. Il caso di ieri che ha portato al fermo degli impianti della Fincantieri a Monfalcone è solo l’ultimo e arriva quantomeno dopo l’altro pasticcio che sta compromettendo il salvataggio dell’Ilva di Taranto. Abbiamo un numero quasi irrilevante di grandi industrie e quelle poche che riescono a reggere l’urto della concorrenza globale rischiano di finire stese da un contenzioso nato nei nostri tribunali. Nessuno vuole contestare il ruolo dei giudici, tantomeno metterne in discussione l’autonomia, ma se è vero che non possiamo chiedere loro di condividere una visione comune di politica industriale è anche giusto osservare che così non si può andare avanti. Occorre prendere un’iniziativa che prescinda dai singoli casi pur eclatanti e riavvicini i due mondi, costruisca un’ipotesi di lessico comune. Spieghi, ad esempio, alla magistratura che la Grande Crisi sta cambiando profondamente il modo di fare impresa, che la concorrenza è diventata veramente globale e un Paese come il nostro è riuscito nonostante tutto a restare il secondo player manifatturiero d’Europa. Più in generale varrebbe la pena sottolineare che la prevalenza dell’economico non è un accidente della storia o una sorta di inversione a U della cultura contemporanea, ma è uno dei modi nei quali si dispiega la modernità e non si può non tenerne conto. Torri d’avorio non se ne costruiscono più.
Dicevamo del caso di Monfalcone che ha portato ieri alla chiusura dello stabilimento e al fermo di tutte le attività connesse alla produzione. Tutto parte da un sequestro preventivo ordinato dal tribunale penale di Gorizia che accusa la Fincantieri di gestire i rifiuti prodotti da terzi (i fornitori) in assenza di autorizzazione. La richiesta di sequestro era stata già respinta dal gip dello stesso tribunale e un esito analogo aveva dato il giudizio in sede di appello. Ma evidentemente tutto ciò non è bastato, l’idea che l’azienda volesse in qualche modo approfittare di una normativa lacunosa ha fatto breccia tra i magistrati goriziani e li ha portati a sottovalutare alcuni elementi che pure paiono rilevanti. Innanzitutto non stiamo parlando di rifiuti tossici e di altre diavolerie che possono ledere i diritti dei cittadini ma di residui inerti: scarti di lamiere, pezzi di moquette e mezzi tubi. E quindi risulta incomprensibile che attorno alla querelle, se debbano essere smaltiti in maniera differenziata dall’azienda madre o dai fornitori, si possa giungere a bloccare un’intera fabbrica e 5 mila lavoratori. La competizione nella cantieristica si gioca anche sul rispetto assoluto dei tempi di consegna e se la Fincantieri è riuscita a restare uno dei protagonisti del business mondiale è perché finora è riuscita a tener fede agli impegni.
Giorgio Squinzi commentando i casi di Taranto e Monfalcone ha parlato di una «manina» che ciclicamente opera nell’ombra per manomettere la competitività del nostro sistema industriale e azzoppare le imprese migliori. La Fiom, rompendo il fronte sindacale, ha replicato duramente invitando il governo «a condannare con fermezza le posizioni della Confindustria» e sostenendo pienamente l’intervento a gamba tesa dei giudici goriziani. E forse anche in questo scambio ravvicinato di colpi c’è una traccia da approfondire. Non è infrequente, infatti, che si palesi un asse culturale, un idem sentire tra magistratura e sindacato radicale. Dietro c’è l’idea che il diritto debba riequilibrare l’azione «distruttrice» del mercato e che possa addirittura svolgere una funzione di supplenza laddove la rappresentanza dal basso è debole o è sconfitta. È chiaro che con questi presupposti la lotta al trattamento dei rifiuti da parte delle imprese o la stessa difesa dei diritti ambientali si prestino ad essere usati a senso unico: colpire l’eterna protervia degli imprenditori.