la Repubblica, 30 giugno 2015
Un anno di Isis. Come siamo arrivati a questo orrore? Nonostante i bombardamenti aerei della coalizione guidata dagli Usa, lo Stato islamico è più forte oggi di quanto non fosse quando è stato proclamato. Fra le cause della disfatta, le valutazioni sbagliate di Stati Uniti e Unione europea, ma anche la debolezza degli alleati iracheni e siriani. La crescita della rivalità fra sunniti e sciiti, l’ideologia estremista e l’abilità militare: sono questi i tre elementi che fanno degli uomini di Al Baghdadi una realtà molto difficile da sconfiggere
Lo”Stato islamico” oggi è più forte di quanto non fosse quando è stato proclamato, il 29 giugno dell’anno scorso, poco dopo la conquista di gran parte dell’Iraq settentrionale e occidentale. La sua capacità di continuare a incamerare vittorie è stata confermata il 17 maggio scorso in Iraq, quando le truppe dell’Is si sono impadronite di Ramadi, capoluogo della provincia dell’Anbar, e di nuovo quattro giorni dopo in Siria con la presa di Palmira, una delle città più famose dell’antichità e importante snodo dei trasporti in tempi moderni.
Queste due vittorie sono la dimostrazione di quanto si sia rafforzato l’Is, che ora è in grado di attaccare simultaneamente su più fronti e a centinaia di chilometri di distanza, una capacità che fino a un anno fa non aveva. In rapida successione le sue forze hanno sconfitto l’esercito iracheno e quello siriano, e nessuno dei due, dato altrettanto significativo, è stato in grado di mettere in piedi una controffensiva degna di questo nome.
Teoricamente questi successi non avrebbero dovuto essere possibili con i raid aerei della coalizione a guida statunitense. I bombardamenti sono cominciati lo scorso agosto in Iraq e sono stati estesi alla Siria in ottobre, e le autorità americane recentemente hanno dichiarato che le quattromila missioni aeree condotte dalla coalizione avevano portato all’uccisione di diecimila combattenti dell’Is. Sicuramente la campagna aerea ha inflitto perdite pesanti all’organizzazione islamista, ma ha compensato il numero di miliziani uccisi incoraggiando il reclutamento all’interno dell’autoproclamato califfato.
La cosa che rende particolarmente rilevante la caduta di Ramadi e di Palmira è che non sono state conquistate con attacchi a sorpresa, come successe quando qualche migliaio di combattenti di Daesh (l’acronimo arabo dell’Is) si impadronirono di Mosul, la seconda città dell’Iraq, nel 2014.
A Mosul c’era una guarnigione che contava circa ventimila uomini, ma in realtà nessuno sa quale fosse il numero esatto, perché le forze armate irachene erano piene di soldati «virtuali», che non esistevano fisicamente e servivano solo a consentire a ufficiali e funzionari governativi di intascarsi i loro stipendi: il Governo di Bagdad successivamente ha ammesso l’esistenza di cinquantamila di questi finti soldati. Come se non bastasse, c’erano molti soldati che esistevano ma versavano almeno metà del loro salario agli ufficiali a condizione di essere esentati dalle mansioni militari.
Ma la battaglia di Ramadi avrebbe dovuto andare diversamente. L’assalto dell’Is, a metà maggio, è stato il prevedibile coronamento di una serie continua di attacchi negli otto mesi precedenti, a partire dall’ottobre 2014. Quello che non era prevedibile era la ritirata, in pratica una rotta, delle forze governative, e più a lungo termine la stessa vecchia, fatale disparità tra dimensioni nominali delle forze armate irachene e forza militare effettiva.
Un aspetto cruciale del panorama politico e militare dell’Iraq è che l’esercito iracheno non si è mai ripreso dalle sconfitte subite nel 2014. Per fronteggiare gli attacchi dell’Is su più fronti ha meno di cinque brigate (dieci-dodicimila soldati) in grado di combattere, mentre «il resto dell’esercito è buono solo per i posti di blocco», per citare le parole di un alto funzionario delle forze di sicurezza irachene.
Nella battaglia di Ramadi non è bastata nemmeno la presenza di truppe esperte. La ragione della sconfitta delle forze governative è stata spiegata in parte del colonnello Hamid Shandoukh, che comandava le forze di polizia nel settore meridionale di Ramadi durante la battaglia finale: «In tre giorni di combattimenti, 76 dei nostri uomini sono stati uccisi e 180 feriti». I comandanti dell’Is hanno usato un cocktail letale di tattiche sperimentate, spedendo volontari stranieri esaltati alla guida di veicoli imbottiti di esplosivi, che si facevano saltare in aria demolendo le fortificazioni delle forze governative. Questi attentati suicidi di massa, con esplosioni capaci di distruggere un isolato, erano seguiti da assalti di truppe di fanteria ben addestrate, con tanto di cecchini e artiglieria.
Il colonnello Shandoukh, lui stesso arabo sunnita, dice che la radice del problema è che le forze di sicurezza irachene e le milizie tribali filogovernative non hanno ricevuto rinforzi o equipaggiamenti adeguati. Dice che il problema di fondo sono le divisioni settarie e nascono dal fatto «che il governo teme che mobilitare gli abitanti della provincia dell’Anbar, che sono sunniti, possa rappresentare un pericolo per il Governo in futuro».
Non sono molto convinto, come sostiene il colonnello Shandoukh, che la ragione della vittoria dell’Is sia che loro avevano armi più sofisticate e i suoi uomini non le avevano perché il Governo di Bagdad, dominato dagli sciiti, non gliele aveva fornite. La mancanza di armamenti pesanti è una scusa che è stata usata ripetutamente dai leader iracheni e curdi per giustificare i rovesci subiti da forze inferiori per numero.
A Mosul l’anno scorso, e di nuovo a Ramadi quasi un anno dopo, abbiamo assistito allo stesso tracollo del morale fra i comandanti delle truppe governative, che ha messo in moto una ritirata disordinata e non necessaria. Come ha detto il generale Martin Dempsey, il capo di stato maggiore delle forze armate Usa, le forze di sicurezza non sono state «spinte fuori» da Ramadi, «sono fuggite via da Ramadi».
Secondo il colonnello Shandoukh, la causa principale della disfatta sta nella sfiducia fra sunniti e sciiti. Secondo lui gli abitanti di Anbar, un’enorme provincia che copre un quarto dell’Iraq, sono «visti dal Governo come terroristi; anche gli ufficiali sunniti e i loro distaccamenti non possono contare su un pieno sostegno». Altri danno la colpa alla corruzione e alla natura disfunzionale dello Stato iracheno, in un Paese dove la gente è fedele innanzitutto alla propria confessione religiosa o alla propria comunità etnica e il nazionalismo conta ben poco.
Una ragione più accurata di questa disintegrazione militare sta forse nel fatto che l’esercito iracheno (e vale anche per i Peshmerga curdi) è diventato eccessivamente dipendente dai raid aerei. La rabbia malcelata del generale Dempsey per la débâcle di Ramadi nasce forse dalla consapevolezza che quel disastro va oltre la perdita di una singola città e finisce per screditare l’intera strategia portava avanti dagli americani nei confronti dello Stato islamico. L’obbiettivo era usare la potenza Usa in combinazione con le forze locali sul terreno per indebolire e in prospettiva eliminare lo Stato islamico. Washington si era convinta che questa politica stesse funzionando fino al 17 maggio, quando tutto è andato in pezzi.
Prova ne è una conferenza stampa, assai poco tempestiva ed eccessivamente ottimistica, tenuta il 15 maggio dal generale di brigata Thomas Weidley, capo di stato maggiore dell’operazione combinata interforze Inherent Resolve, come viene chiamata la campagna di attacchi aerei guidata dagli Usa per sconfiggere lo Stato islamico. «Siamo fermamente convinti che l’Is sia sulla difensiva in ogni parte dell’Iraq e della Siria».
Il generale Weidley ha rivelato che la coalizione aveva lanciato 165 raid aerei su Ramadi nel mese precedente, e 420 nell’area di Falluja e Ramadi dall’inizio della campagna, e sembrava del tutto fiducioso che queste incursioni avessero arrestato la sequela di vittorie dell’Isis. Ma lo stesso giorno in cui il generale ostentava tanto ottimismo, l’Is stava espugnando le ultime roccaforti del Governo iracheno a Ramadi. In altre parole, quello che il Pentagono pensava stesse succedendo sul campo di battaglia in Iraq e in Siria era completamente sbagliato. I raid aerei nell’area di Ramadi, e altri 330 sulla raffineria e sulla città di Baiji e dintorni, non hanno impedito all’Is di concentrare le sue forze e lanciare un’offensiva vittoriosa.
I generali statunitensi non sono stati i soli a eccedere in ottimismo. La conquista di Tikrit, la città natale di Saddam Hussein, da parte dell’esercito iracheno e delle milizie sciite aveva indotto tanti, in tutto il mondo, a dare per scontato, esagerando, che Daesh fosse in ritirata. Ma poi la perdita di Ramadi ha dimostrato che la linea seguita per sconfiggere l’Is in Iraq è stata un fallimento, e nessuna strategia alternativa è stata ancora proposta. Se la stessa cosa non è successa in Siria è solamente perché lì l’Occidente non ha mai avuto nemmeno una linea da seguir: vorrebbe indebolire il presidente Bashar al-Assad, ma ha il terrore che se dovesse uscire di scena il regime crollerebbe con lui, lasciando un vuoto che verrebbe colmato dallo Stato islamico e dal Fronte al-Nusra, la filiale siriana di al Qaeda, che guida una coalizione di gruppi ribelli arabi sunniti fondamentalisti, sostenuta da Turchia, Arabia Saudita e Qatar. I moderati sostenuti dall’Occidente giocano un ruolo marginale all’interno dell’opposizione armata siriana.
Nonostante tutto ciò, la linea occidentale è di continuare a far finta che esista ancora un’alternativa “moderata” ad Assad, in realtà sempre più debole. Assad, lo Stato islamico e il Fronte al-Nusra hanno tutti e tre beneficiato della militarizzazione totale della politica siriana, dove nessun compromesso è possibile fra gli schieramenti in lizza. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, lo Stato islamico «ha conquistato più della metà della Siria e ora è presente in 10 province su 14». E la maggioranza dei giacimenti di petrolio e gas naturale del Paese sono nelle mani di Daesh.
Questi dati forniscono un’immagine esagerata del controllo dell’Is sulla Siria, considerando che il suo controllo si esercita principalmente nelle regioni orientali, scarsamente popolate. Inoltre subisce la pressione delle ben organizzate milizie curdo-siriane, che gli hanno in-flitto la sconfitta più grossa respingendolo da Kobane nonostante quattro mesi e mezzo di assedio. Il 16 giugno l’Is ha perso l’importante valico di frontiera con la Turchia di Tal Abyad. Poi è stata cacciata anche dalla città di Ayn Isa e da una vicina base militare, una cinquantina di chilometri appena a nord di Raqqa, la città siriana eletta dallo Stato islamico a sua capitale.
Ancora una volta, questi rovesci hanno indotto a dichiarazioni eccessivamente ottimistiche su un indebolimento dell’Is: in realtà in Siria lo Stato islamico ha sul lungo periodo, più opportunità che in Iraq, perché circa il 60 per cento della popolazione è arabo sunnita, mentre in Iraq solo il 20 per cento. In Siria Daesh non è ancora egemone fra l’opposizione sunnita ma potrebbe arrivare a esserlo. E con l’escalation della guerra settaria, la combinazione di fanatismo ideologico sunnita e abilità militare potrebbe diventare difficile da sconfiggere.
(copyright The Independent
traduzione di Fabio Galimberti)